31 agosto 2005

Sulla punta

Attraverso tutto lo stivale in macchina, macino chilometro dopo chilometro per arrivare laggiù sulla punta, dove i miei primi ricordi di 28 anni fa si riaffacciano alla memoria. Capo Rizzuto, terra rossa di ulivi, pioppi ed eucaliptus, luogo di sabbie e argille color aghi di pino, e di mare che, lo sai, custodisce fauna e relitti antichi.
In un continuo flash back mi riappaiono, immutate, le immagini del cielo annerito da stormi che al tramonto si alzano rumorosi dalle cime degli alberi, creando in un cielo ocra figure astratte in continuo movimento. Spalanco nuovamente gli occhi davanti alla colonna superstite di un tempio greco, marmo bianco esaltato dal sole, che spicca sullo sfondo di un mare capace di inventarsi ogni momento nuove sfumature di azzurro.
Appena è avvolto dal caldo e dagli odori di olio d’oliva e campi coltivati, il corpo rallenta il suo ritmo, si lascia cullare nell’abbandono all’ombra della pineta, gli occhi osservano e raccolgono immagini di grandi famiglie riunite sotto il portico nel piccante pranzo del ferragosto, con piccoli e adulti che scappano a piedi scalzi dalla rituale battaglia di gavettoni, tradizione di un luogo in cui evidentemente il freddo non deve essere di casa.
In paese tutto sembra rimasto immobile nel tempo. Il parroco passeggia con il suo abito nero salutando vecchi e bambini in piazza, gli uomini discorrono in dialetto davanti al bar, i ragazzini scorrazzano e giocano a rincorrersi fra vicoli e scalette, mentre i nonni li inseguono richiamandoli per mangiare. Tutti ti guardano, ti indagano, ti scrutano con le facce scure, i capelli d’argento. Ma se chiedi loro un’informazione, il volto si apre in un sorriso bianco e ospitale, il corpo quasi proteso verso di te, in un gesticolare proprio di questi luoghi, che ti mette a tuo agio.
All’ora del pranzo, tutto è silenzioso, i negozi sono chiusi, gli animali sonnolenti, solo le cicale ti accompagnano ritmicamente nel respiro della calura, fino giù, in spiaggia, dove intere famiglie fatte di nonni, zii, figli, cugini e parenti acquisiti sono attrezzate per soddisfare qualsiasi desiderio gastronomico. Vaschette, frigo, tavoli e sedie, gazebo e ombrelloni, scorte di acqua, birra e vino, pane casereccio e forme di cacio, pasta al forno e verdure in umido. Si ritrovano qui, a casa, dopo lunghi periodi di emigrazione, remota nei tempi e nei luoghi. I bambini parlano con l’intonazione delle patrie acquisite, gli adulti mantengono il colore e l’inflessione aspirata del dialetto.
Poi ti arrampichi lungo le tortuose strade che si allontanano dalla linea di costa, fino ai paesini arroccati, e capisci che un tempo i nemici dovevano arrivare per lo più dal mare. Chiunque in questa terra ha conquistato, costruito, distrutto, riedificato, dai coloni partiti dalla Grecia ai costruttori edili dei giorni nostri.
Nei borghi c’è quasi sempre un castello di origine bizantina, con l’aspetto normanno e rifacimenti svevi, rinforzato da torri angioine e aragonesi. Alcuni villaggi portano ancora profonde ferite di terremoti e cataclismi che mai hanno risparmiato il territorio, ma in generale hanno tutti un intrico di stradine, una piazza e una chiesa, e tutti sono accomunati dalla pacatezza di abitanti anziani, che per uscire al crepuscolo indossano la camicia estiva e i pantaloni lunghi, di panno grigio. Si siedono lì, sulle panchine del giardino, e parlano, ridono, fumano, osservano. Li vedi anche sui balconi, seduti su una sedia a prendere il fresco e a guardare in strada quel via vai di gente dell’estate che riempie i bar e che fotografa i luoghi delle loro ripetute e antiche quotidianità. Sono veloci come fulmini, qui, le estati. Passato il loro colorato turbinio regneranno nuovamente la calma e il silenzio, e i vecchi saranno sempre lì, al crepuscolo, questa volta con camicia a maniche lunghe e pantaloni grigi, di lana, seduti sulle panchine del giardino a parlare, ridere, fumare.
Ti inerpichi con il fiatone e le gambe indurite dalla salita, e se respiri profondamente riesci a percepire l’odore della storia che impregna ogni angolo. Qui è nato Cassiodoro, lì hanno processato Tommaso Campanella, questo è il luogo dove sorgeva Petelia, di là si arriva al campo di battaglia fra Crotone e Sibari, da qui sono partiti i fratelli Bandiera, lassù hanno fucilato Gioacchino Murat, da quella parte è approdato Pitagora, là in fondo c’è un’isola con una fortezza aragonese circondata dalle onde. Lì è morto Alarico e lassù è vissuto Gioacchino da Fiore, mentre in quella chiesetta bizantina, unica nella perfezione modulare della sua architettura in mattoni, una colonna ha un’iscrizione in arabo, mentre l’altra è in greco antico.
Poi, senza smettere di guardarmi intorno, mi fermo a riflettere, e scopro che la Calabria mi confonde. Non so districarmi nel suo labirinto di contraddizioni ambientali e umane. Sembra che in tutti i sensi l’avanzare del tempo abbia rallentato. Sa essere bellissima e bruttissima nello stesso istante. E non solo nelle sue grandi cattedrali nel deserto, scheletri di casermoni in calcestruzzo lasciati incompiuti sulle rive di un mare selvaggio. L’attenzione per i particolari non esiste, ci si ritrova spesso a immaginare che quel paesino con la chiesetta bizantina sarebbe davvero superbo se nei palazzi antichi ci fossero le persiane invece che insipide tapparelle anni ’70, oppure se quelle case fossero state costruite più basse sulla linea di costa.
Intendiamoci, le brutture del boom economico sono state fatte in tutta Italia, in altri luoghi ogni centimetro di costa è stato colonizzato, rendendo il mare poco fruibile a chi ama un turismo più libero.
Ma in Calabria si è cercato un potenziamento turistico che poi non è arrivato, e la conseguenza è un ibrido tra il selvatico e l’urbano. Resta da chiedersi se tutto ciò non ha funzionato perché il processo non è andato avanti oppure se tutto è rimasto incompiuto perché tanto non funzionava.
In ogni caso il danno è fatto, ora sarebbe bello cercare di mettere un po’ di ordine. Capire dove si vuole arrivare. Perché altrimenti il rischio è che la Calabria piaccia solo agli emigrati calabresi, forti di un sentimento di appartenenza e magari anche di abitudine in cui nemmeno si arriva a concepire la rassegnazione.
Bisognerebbe forse trovare il modo per non stravolgere lo spirito originale della Calabria e dei suoi figli stimolando una sorta di protezione di sé aperta e pronta alla conoscenza e allo scambio.
Ma capisco che per la maggior parte delle persone che tornano un mese all’anno per le ferie non valga la fatica, perché di sicuro questo processo è faticoso, laborioso e lento.
Per il momento sembra che in qualche modo si cerchi di compiacere chiunque, senza scegliere chi attirare nei propri luoghi, offrendo quel poco di tutto in modo che non ci sia mai qualcuno veramente scontento. Ma così per il viaggiatore curioso non sarà facile scovare l’incanto, è come se dovesse cercarselo da solo in una tortuosa gimcana che ottimismo e determinazione faticano a superare.
La mia prima impressione da non calabrese è stata quella di sentirmi invisibile, nei bar, nei ristoranti, per strada. Ma poi, forzata la mia presenza agli occhi calabresi, l’accoglienza è stata calda e familiare, con volti aperti, per nulla ostili.
Nel momento in cui mi sono sentita accolta ho cominciato ad apprezzare il gusto per la calma e per la pacatezza, che all’inizio avevo preso per insolenza.
E in questo turbinio di contraddizioni che mi svolazzano nella memoria, alla fine, scremando e ragionando, il sentimento che più rimane, pungente, è già la nostalgia, forse anche perché lì tutto è imprevedibile, e ti resta in bocca il gusto amaro per ciò di meraviglioso che non sei riuscito a scovare o a cogliere.
E il gusto amaro si scaccia via forse solo con un altro po’ di peperoncino…

28 agosto 2005

Quella carezza della sera

Mi capita di incontrare delle persone con cui instauro un legame più profondo ogni volta, con le quali provo un desiderio di comunicazione più forte che con altri.
E mi rendo conto che purtroppo questo livello di confidenza rimane virtuale, perchè i tempi e i luoghi del presente non riescono a coincidere con il desiderio di stare assieme.
Ma pur non facendo molto nè parlando così a fondo delle proprie cose, ho sempre la sensazione bellissima di aver nutrito qualcosa di importante, in cui si radicano la consapevolezza e la fiducia in un amicizia profonda, proprio perchè fatta di tutto e di niente, vera nel suo equilibrio e nella gioia dello stare assieme.
Ecco, quando penso a queste persone provo una sensazione strana, in cui il cuore manca qualche battito.
Perchè è sempre emozionante rendersi conto della bellezza dei rapporti umani, stupidi come siamo nel vederla sempre altrove e non nel nostro presente.

27 agosto 2005

I limoni

...Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni

le trombe d’oro della solarità.

Eugenio Montale
Da Ossi di Seppia