Sawadee ka (viaggio in Thailandia)
17 agosto 2006
Eccoci a Bangkok. Viaggio infinito, gambe rattrappite.
Nel taxi per il centro siamo rapiti dalla quantità di grattacieli di ogni forma e colore, costruiti in ordine sparso, senza un’apparente piano regolatore.
Ogni tanto, nell’intrico di palazzi, si incontrano sacche di quartieri di legno, di case thai, con i vestiti appesi alle finestre, forse ad asciugare.
È meglio stare attenti al taxista, che è simpaticissimo, ma corre come un matto superando da destra e da sinistra, tallonando le macchine davanti e ignorando completamente il concetto di “distanza di sicurezza”.
“My friend, take it easy” gli dice Fabrizio, e giù pacche sulle spalle…
Non capiamo niente di Bangkok. Forse non capiamo niente e basta, siamo un po’ rintronati dal fuso orario, non sappiamo quasi che ore sono. Usciamo dall’albergo hollywoodiano che abbiamo prenotato via internet e con un tuk tuk, una sorta di Ape Cross aperta, come un risciò a motore rumorosissimo e puzzolentissimo, andiamo a Khao San Road, ritrovandoci in una via piena di insegne e di negozi, brulicante di gente e con tanti, tanti turisti.
Cerchiamo un posto dove mangiare, ma non sappiamo nemmeno cosa si mangia, qui. E soprattutto, ma che ore sono?
Scoviamo un ristorante pulito e tranquillo e gustiamo una zuppa green curry con pollo, delicatissima, e un riso con carne al curry, di sapore tipicamente indiano.
Facciamo un giretto, ma non osiamo avventurarci oltre, per stasera. È buio da qualche ora, e siamo proprio stanchi.
Crolliamo in un sonno profondo, per svegliarci verso le quattro di notte, svegli come fosse mattina. Come se avessimo fatto un lungo riposino pomeridiano, maledetto jet leg…
18 agosto 2006
Saremmo rimasti ancora una notte a Bangkok, ma il personale della reception ci ha liquidati con un “Solly, we ale fully booked”, l’albergo è al completo.
Andiamo quindi in stazione e ci informiamo per andare al sud.
Perfetto, stasera abbiamo il night pullman per Surat Thani e domattina la nave per Koh Samui.
Lasciamo i bagagli all’ufficio della T.A.T., la Tourism Authority of Thailand, e facciamo un giro diurno per Khao San Road, ma alle sette siamo di nuovo alla stazione, perché si parte per il mare!
19 agosto 2006 (all’alba)
Il pullman da Bangkok ci ha appena scaricati in un’improbabile stazione chissà dove, pronti per prendere la nave per Koh Samui.
Siamo tutti accampati tra sedie e tavolini di plastica. Americani, inglesi, francesi, giapponesi… Segno di riconoscimento uno zaino ciascuno e la faccia di chi ha cercato inutilmente di dormire in posizione da contorsionista per circa dieci ore.
Aspettiamo la nave. Ancora per un’ora.
Sulla strada passano moto e tuk tuk, e un paio di cani pulciosi cercano, senza successo, di familiarizzare con chiunque.
Ieri a Bangkok abbiamo cominciato a prendere un po’ di confidenza con la gente thai, che sembra simpatica. Ci hanno chiesto di tradurre in italiano le parole e le frasi di saluto, se le sono scritte su un taccuino, per i prossimi turisti. E ci hanno scritto le loro, traslitterate dall’alfabeto thai. Sawadee ka per dire buongiorno, lakon ka per dire goodbye, kob kun ka per dire grazie…
Hanno voglia di ridere, rispondono alle battute e ridacchiano con quel misto di solarità, dolcezza e timidezza tipiche degli orientali.
Ora il cielo dell’alba è semicoperto, fa già caldo e si percepisce tanta umidità, che unge la pelle e bagna i vestiti.
Ma possibile che in questo posto si debbano ascoltare gli Scorpions?
19 agosto 2006 (ora del tramonto)
Avevo giurato che non avrei dormito, ma dopo un pranzo di noodles, i tagliolini di riso, con calamari e muscoli sono miseramente crollata nel bungalow per più di un’ora.
Ora piove. Fortunatamente, perché il caldo si è così un po’ mitigato e la temperatura è diventata tollerabile.
Siamo a Koh Samui, più precisamente nel villaggio di Bo Phut.
Abbiamo viaggiato in nave da Surat Thani per circa tre ore, fra piroghe in stile Apocalypse now e mercantili, con i pesci volanti che ci inseguivano nella scia.
In realtà non so per quanto abbiamo viaggiato, qui il tempo è dilatato, e sulla nave ho dormito ancora sotto il sole cocente…
Quando siamo sbarcati al molo abbiamo preso un songthaew (una sorta di pickup usato come taxi collettivo) fino a qui, e dopo una camminata a zaino di circa un chilometro, e un succo di mango per riappropriarci di qualche liquido, abbiamo trovato questo posto.
I bungalow sono spartani ma belli, tutti in legno, rialzati a palafitta per far circolare l’aria e salvarci probabilmente dall’umidità del terreno. Ci sono una veranda coperta da un tetto di foglie di banano, e un tavolino con due sedie, in bambù.
La vegetazione tropicale è fitta e di un verde intenso, le palme spiccano con i loro grappoli di cocco e tutto è rigoglioso.
C’è una bella pace, qui.
I rumori sono attutiti, si sente solo il mare, che è lì, a due passi, attraversata la strada.
Appena arrivati ci siamo subito buttati in acqua, salata, calda, bella.
Forse domani capiremo qualcosa di più, per adesso ci lasciamo avvolgere dal tropico, salutando la gente del posto con le mani giunte e il capo chino.
E col sorriso, prontamente corrisposto.
20 agosto 2006
Dopo una notte agitata e resa semi-insonne dal jet leg, ci svegliamo pronti per l’esplorazione dell’isola.
Il caldo è infinito, inimmaginabile.
Affittiamo uno scooter con le marce e ci dirigiamo verso ovest.
Si fa benzina lungo la strada, una ragazza ha un banchetto a lato strada, pieno di bottiglie, con cui riempie il serbatoio per mezzo di un imbuto.
Non abbiamo portato con noi la mappa dell’isola, perciò andiamo a zonzo lungo la strada, fra villaggi turistici e banchetti che vendono banane fritte e spiedini piccanti.
Ci inerpichiamo con il motorino su per una strada in mezzo alla jungla. Incontriamo un bufalo indiano che bruca e due poveri elefanti turistici parcheggiati, in attesa di avventori.
Saliamo su fino a un sightseeing dove per 10 bath ti guardano la moto nel parcheggio, e poi scendiamo in cerca di mare dove rinfrescare la pelle, arrossata nonostante la protezione 50.
Arriviamo in una spiaggia un po’ triste, piena di italiani da viaggio-in-resort e uomini bianchi temporaneamente in coppia con donne thai.
Facciamo giusto un bagno, l’acqua è caldissima, ci asciughiamo e corriamo verso “casa” prima che arrivi il giornaliero tropical storm, che le nuvole minacciano essere imminente.
Tempo di una doccia e siamo già fuori.
Stasera si festeggia il mio compleanno con un massaggio thai, ci facciamo consigliare dalla padrona del nostro bungalow, chiediamo il prezzo e entriamo.
La ragazza che si prende cura di me ha il viso molto dolce, del mio compagno si prende cura una donna più anziana, sempre col sorriso sulla bocca.
Siamo una accanto all’altro, separati da una tenda.
Con indosso dei pantaloni thai di tela e il reggiseno mi stendo sulla schiena e mi lascio manipolare senza fare resistenza.
Dai piedi al collo. Arto dopo arto, muscolo dopo muscolo, un’articolazione dopo l’altra.
La ragazza usa i polpastrelli, le mani, gli avambracci, i gomiti, i piedi, energicamente ma con dolcezza, senza movimenti repentini.
Va a cercare i miei punti nodali, i miei personali blocchi di energia per ridistribuirla in tutto il corpo. Tocca dei nodi in cui sono costretta a respirare di pancia per non saltare dal dolore, e mentre respiro insiste, fino a che il dolore passa.
Ogni tanto mi guarda e mi sorride con timidezza.
Mi impasta, mi tira, mi allunga, mi schiaccia e mi torce.
A volte ho la sensazione di volerle quasi bene…
Si crea una piacevole intimità fisica e mentale, che risuona nel silenzio.
Le sue mani piene di olio emanano un gran calore.
Chiudo gli occhi e la lascio fare, cercando di visualizzare ogni punto del mio corpo.
E la mente si svuota…
Dopo un’ora di massaggio sono una donna nuova, mi sembra di camminare su una nuvola.
È il momento di andare a mangiare, mi infuoco la bocca con un riso e gamberi al curry e un trancio di tonno alla griglia.
Poi dopo cena, succubi della nostra curiosità da viaggiatori, prendiamo il motorino e ci dirigiamo a Chaweng. Il temporale è passato, si può andare.
Non vale la pena spendere più di un paio di righe sullo squallore che troviamo.
Una strada lunghissima piena di moto e macchine.
L’aria sa di fogna e smog, e la quantità di negozi e insegne occidentali quasi stordisce.
La musica è ovunque altissima e le orde di turisti sono insopportabili.
E poi ci sono loro. Le ragazze dei go-go bar. Giovani, anzi, piccole. Truccate come bambole. Attorniate da bianchi.
Ballano, cercano di attirare gli uomini (go-go bar, perché ti invitano a entrare dicendoti “go, go!”) e di uomini in vacanza che le attorniano c’è pieno, magari anche in là con gli anni. Chissà, poi a casa, agli amici, diranno anche che hanno beccato…
Poveri thai, usati a piacimento…
Cerchiamo il motorino, ma dov’era, tra Burger King e Häagen-Datz o davanti al megastore dell’Adidas?
Andiamo via, torniamo a Bo Phut, nella calma del villaggio ci riappropriamo di un po’ di sapore thai.
Domani ci si sveglia presto.
Si va in gita in barca…
21 agosto 2006
La giornata inizia presto.
Alle sette e mezzo stiamo già restituendo il motorino in affitto e alle otto siamo in macchina verso il porto. L’escursione prevede che ti vengano a prendere al bungalow, grande comodità…
Saliamo sul barcone di legno e fin da ora fa un caldo lancinante, non si può stare al sole e abbiamo già la pelle imbevuta di crema superprotettiva.
Sulla barca è tutto compreso, caffè, tè, acqua, succhi di frutta…
Ci vengono offerti persino dei muffins alla banana, buonissimi…
Il viaggio dura circa un’ora e mezza e, arrivati all’arcipelago di Ang Thaong, saliamo sul kayak. Io e Fabrizio pagaiamo inneggiando ai fratelli Abbagnale e, in gruppo, si fa un mezzo giro del primo isolotto andando fin sotto le rocce, che sono così erose dalla marea da formare delle tettoie naturali a picco sull’acqua.
Sono rocce strane, piene di concrezioni stalattitiche, con mille pertugi, mezze grotte, piccoli anfratti.
L’arcipelago è frequentato da molte comitive come la nostra, ma superato il primo impatto con un po’ di sovrappopolamento si rivela molto bello.
Quello che mi colpisce è la vegetazione degli isolotti, che è di un verde intenso, luminoso, e si diffonde in ogni centimetro di terra con un intrico di liane, cactus e palme, riflettendosi in acqua.
Sbarchiamo dal kayak su una spiaggia piena di rocce coralline e saliamo un’infinità di scalini di legno per andare a vedere un laghetto formato probabilmente dal collasso del terreno. È un laghetto strano, con il livello dell’acqua in quota con quello del mare.
Torniamo in kayak al barcone e ci viene servito il pranzo, spezzatino con patate e riso, e una coscia di pollo fritto, con vari contorni di verdure semicotte che accuratamente scartiamo.
Subito dopo il pranzo, sfidando la congestione, risaliamo sul kayak per un ultimo giro in un’altra isoletta.
Il ragazzo thai che ci guida è simpaticissimo, fa un sacco di battute e ride alle nostre.
Ci stiamo divertendo, i fratelli Abbagnale sono con noi…
All’orizzonte c’è un veliero antico con vela quadrata, nera.
Faccio in tempo a dire al Fabrizio “Sono arrivati i Fenici!” che la nostra guida ci dice, ridendo: “Sono arrivati i Cinesi!” Differenza di latitudine, differenti nemici dal mare…
Ci si ferma un paio d’ore sulla spiaggia dorata.
C’è un po’ di gente, ma è molto bello, l’acqua è calda e il sole abbronza all’istante.
Ci rilassiamo un bel po’ fra bagni di sole e di mare, poi si riparte.
Arriviamo al porto dopo un abbiocco di gruppo, il sole è sempre implacabile, siamo tutti abbastanza stravolti.
Dopo una doccia e un po’ di relax facciamo un giretto per la tranquilla Bo Phut. Stasera è l’ultima sera, domani si parte, direzione Koh Phangan.
Mangiamo una sublime zuppa di latte di cocco e pollo e degli involtini primavera superlativi, mai mangiati di così buoni. Il ristorantino è molto alla mano, sulla strada, ma si mangia veramente bene.
Siamo cotti. Facciamo in tempo ad arrivare nel bungalow e la notte pastosa ci ha già socchiuso gli occhi…
22 agosto 2006
Appena svegli ci buttiamo in acqua. C’è un po’ di bassa marea, e il fondale è melmoso, quasi fosse fatto di argilla grigia, ma l’acqua è spettacolare.
Facciamo colazione e prepariamo gli zaini, alle 10,30 ci viene a prendere la macchina per andare al porto.
In macchina ci sono cinque ragazze e un ragazzo, incredibile, sono di Genova, il tipico intercalare non passa inosservato a nessuno di noi…
Ci raccontano un po’ del loro viaggio nel nord, dei templi, degli elefanti, del rafting.
Ci fanno venire la curiosità. Bene, altrimenti chi la trova la forza di andare via dal mare?
Appena sbarcati a Koh Phangan cerchiamo di capire qualcosa nella gran quantità di bungalow e resort che ci vengono offerti.
Ne scegliamo uno a caso e ci facciamo lasciare lì dal songthaew.
Ma il posto non ci piace, c’è la bassa marea quotidiana e non c’è spiaggia, si possono fare solo passeggiate sulla barriera corallina.
In più, il bungalow è brutto e sporco, nell’acqua del gabinetto ci sono persino i vermi.
Decidiamo di cercare altrove.
Bene. E adesso?
Siamo chissà dove, la strada carrabile è lontana e qui di taxi nemmeno l’ombra.
E così, nonostante siano le due del pomeriggio e il sole sia impietoso, ci incamminiamo lungo la spiaggia, zaini in spalla, allegramente.
Dopo un po’ di marcia e svariati litri di sudore persi capiamo che dobbiamo trovare una soluzione, quindi ci dirigiamo verso la strada principale per fermare un taxi qualsiasi.
Troviamo un negozio dove comprare acqua e sigarette. “Where are you from?” “Italy” E giù complimenti per aver vinto i Mondiali...
I due omini sono simpatici, ci facciamo spiegare dove secondo loro è meglio cercare da dormire.
E così ci dirigiamo a Hat Rin, luogo del famoso Full Moon Party.
Ci rendiamo conto che mai saremmo arrivati a piedi, la strada è un percorso di montagne russe con salite e discese da brivido, fino al 20 per cento di pendenza.
Lasciato il taxi, un gentilissimo ragazzo thai ci propone varie sistemazioni, ascolta quelle che sono le nostre esigenze e ci trova un bellissimo bungalow a 30 metri dalla spiaggia.
Aggiudicato.
Infilato il costume siamo già a bagno. Nell’acqua qualcosa pizzica la pelle, forse il sale, forse plancton, ma chi se ne frega, la spiaggia è bella, un po’ frequentata ma deliziosa, il mare è limpido, e le tane di granchio nella sabbia ci ribadiscono che siamo ai Tropici.
Ci fermeremo qui tre notti. È deciso…
Verso le sei andiamo a vedere il tramonto sull’altro lato del promontorio e facciamo un giro in paese.
Tanti bar, locali e negozi, ma niente a che fare con lo squallido casino di Chaweng!
La fame è tanta, ordiniamo barracuda e squalo alla griglia, ma il cameriere si dimentica di noi e ci porta solo i noodles.
Pazienza, sarà per un’altra volta. Qui non si litiga mai, ci si scusa e si sorride.
Siamo contagiati dallo spirito thai per il sorriso.
Per tornare al bungalow passiamo dalla spiaggia, dove i locali sparano musica e offrono drink e cocktail in piccoli secchielli di plastica pieni di ghiaccio.
Ma siamo anche fortunati, il nostro bungalow è in posizione favorevole, la musica si sente ovattata.
Si dorme…
23 agosto 2006
La prima cosa da fare è…un bagno.
L’acqua è favolosa, c’è la bassa marea e un bel po’ di battigia è esposta a sole e piedi di bagnanti.
Minuscoli granchi corrono spaventati nei loro pertugi appena passi loro vicino, sono quasi impercettibili, così veloci che non si riescono a focalizzare.
Facciamo colazione all’americana, toast con marmellata, uova strapazzate e prosciutto, fagioli, caffè lungo, e un succo di mango fresco (rigorosamente without ice) che di più buoni non ce n’è…
Prendiamo un taxi-boat.
Sono long-tail boat, viaggiano in continuazione, con un rumore assordante di motoretta con marmitta elaborata, per portare da qui alle varie calette della parte est e nord dell’isola, che non sono raggiunte da nessuna strada, forse solo da qualche impervio sentiero nella jungla. Sono piroghe con l’elica montata su una pertica mobile, che permette ai barcaioli di sollevarla per arrivare a riva senza toccare il fondale.
Il “taxista” ci accompagna e si mette d’accordo con noi per l’ora in cui venirci a prendere.
La spiaggia in cui andiamo per 200 BHT a testa andata e ritorno è splendida. C’è un bar, ci sono bungalow da affittare e si possono fare persino corsi di meditazione.
Tutto sembra preposto alla pace e alla tranquillità, siamo in pochi, qui, c’è anche un palmeto sotto cui riparare la pelle dalla calura, e a pochi metri dalla riva c’è una piattaforma galleggiante con una tettoia di legno e un’amaca, per farsi cullare dalle onde. La sanno lunga i thai in quanto a relax…
Alle cinque ci viene a prendere il nostro taxi-boat e torniamo al bungalow.
Continuo a essere stupita dalla simpatia dei thai. Quando succede qualcosa di imprevisto, quando si fa fatica a capirsi con l’inglese, o magari quando si inciampa e si cade, loro sono sempre pronti a ridere. Oggi un barcaiolo è scivolato dalla barca mentre toglieva l’ancora da riva. È caduto in mare vestito, inzuppandosi. E per tutta la spiaggia è risuonata la sua risata, dal cuore, senza imbarazzo, alla quale hanno fatto eco le risate dei suoi colleghi.
Quando non ci si capisce con l’inglese, invece che innervosirsi alzare la voce, gesticolare o lavarsene maleducatamente le mani, beh, scatta la risata, e qualsiasi tensione scende (e in effetti non capirsi ha molto spesso il suo lato comico…)
Tutto questo si chiama sànùk, che vuol dire “divertente”, e per i tailandesi deve esserci un po’ di sànùk in tutto ciò che si fa, anche il lavoro. Ridere dei piccoli incidenti è un misto tra il sànùk e l’intenzione di salvare se stessi e gli altri dall’imbarazzo, ed è fonte del meraviglioso sorriso tailandese.
E a noi piace questo modo di affrontare le cose, ci siamo portati, è un continuo fare battute e ridere, ci divertiamo.
Stasera abbiamo voglia di andare al porto, a Thong Sala, per prenotare il treno di dopodomani notte per Bangkok. Ci vogliamo concedere ancora un paio di giorni di mare, ma poi vogliamo andare al nord, a vedere un’altra fetta di Thailandia.
Affittiamo un motorino con le marce e facciamo i deliranti 10 km. di strada a montagne russe quando il sole è già tramontato.
Bisogna stare attenti.
Ben presto ci rendiamo conto che la gran quantità di escoriati e bendati che abbiamo visto in paese ha probabilmente preso alla leggera le ripide pendenze e le curve semi-sterrate della strada. Anche noi rischiamo un capitombolo in una curva ma ci salva il senso dell’equilibrio acquisito in una vita passata in Vespa nel traffico cittadino…
Riusciamo a prenotare due cuccette nel treno notturno in un’agenzia di Diving affiliata all’azienda di trasporti nazionale.
Torniamo poi in paese per mangiare e saremmo quasi tentati di andare a vedere cosa succede al Black Moon Party di stasera, ma non abbiamo voglia di rifare le montagne russe in motorino, e di aspettare il taxi collettivo non se ne parla, il rischio è di rimanere ore ad aspettare che si riempia quello del ritorno…
Optiamo per un giro in paese e per una bella dormita, domani abbiamo voglia di girare un po’ l’isola e vedere, vedere, vedere…
24 agosto 2006
Appena svegli nessuno ci nega il solito bagno mattutino.
Del resto in bungalow non si può stare, manca la corrente in tutta l’isola e senza l’aria condizionata la stanza è un po’ soffocante…
Facciamo decantare la colazione e partiamo in motorino.
L’isola è davvero molto bella, lungo la strada c’è un sacco di umanità, venditori, officine, raccoglitori di cocco…
Raggiungiamo un paesino bellissimo nella parte nord, Ban Chalok Lam, con case di legno di pescatori e qualche baretto sulla spiaggia, dove ci rifocilliamo con succo di frutti misti.
Ci spostiamo poi a Ban Mae Hat, più a ovest, posto tranquillissimo, con bella ombra sulla spiaggia e una magnifica barriera corallina che esploriamo con maschera e boccaglio, stupiti dall’enorme quantità di pesci che sembrano più curiosi di noi nel nuotarci intorno.
Sulla spiaggia alcune donne thai fanno massaggi.
Un paradiso…
E stasera a Hat Rin finalmente il cameriere ci considera, e ci sbafiamo un gran trancio di barracuda e un gustoso pezzo di squaletto sulla griglia.
E poi arriva la pioggia, prima a tratti, annunciata da numerosi lampi e fulmini, poi più copiosa, fino a fare nuovamente saltare la luce su tutta l’isola.
Per un attimo, prima che i due più grossi bar della spiaggia accendano i generatori, rimaniamo avvolti dal primordiale buio dell’isola, interrotto solo dai bagliori nel cielo, come unici rumori il mare e il vento. E si rimane quasi senza fiato, in questa notte senza luna.
Poi, piano piano, un po’ per volta, la luce ritorna, e con essa la musica dei bar.
Vediamo il padrone del nostro resort che si aggira con un fucile ad aria compressa. Illumina con la torcia le fronde delle palme. Prende la mira e più volte spara, ma senza evidenti risultati.
“Che succede?” chiediamo.
“Monkey” ci risponde.
Allora quei rumori sordi, quei tonfi che sentiamo sui tetti dei bungalow non sono cocchi o altri frutti che normalmente cadono, forse sono dispetti della scimmia…
Non importa, ci addormentiamo nel rumore dell’ennesimo scroscio d’acqua.
Forse anche la scimmia si è messa al riparo dal diluvio…
25 agosto 2006
Lasciamo Koh Phangan con le nuvole, giusto il tempo di un bagno e di un paio di compere.
Un giretto a Thong Sala in attesa della nave e l’ennesimo equivoco in un bar a causa del ghiaccio.
È ormai un classico.
Chiediamo il succo di frutta fresca, rigorosamente “without ice, with NO ICE, understand? NO ICE!”
La maggior parte capisce, credo che non saremo né i primi né gli ultimi occidentali a non volere il ghiaccio, soprattutto dopo un giorno intero di black out…
Tanti altri, invece, ti guardano come se avessi chiesto uno spicchio di luna in salamoia, ti fissano, ti fanno un gran sorriso thai per farti vedere che hanno capito, e ti portano il tuo bel succo con mille scaglie di ghiaccio scalpellate da chissà quale blocco.
Ora, in certi casi sono cubetti, e il rischio è basso, togli subito il ghiaccio prima che squagli, in modo da ingerirne una minimissima quantità. Tanto se rimandi indietro il succo dicendo “Ti avevo detto no ice!” te lo riportano subito travasato in un altro bicchiere, e te ne accorgi perché è gelato..!
Ma in quel bar del porto non potevamo rischiare. La signora aveva preso il ghiaccio – la avevamo vista benissimo – da un bidone davanti al bancone, scaglie grattugiate da quei grandi blocchi che si vedono trascinare in giro dai venditori di ghiaccio, fatti con chissà che acqua, poggiati chissà dove durante il trasporto.
“Avevamo detto no ice, ci hai messo ice nel succo?”
”Few” ci dice. Poco.
Non lo beviamo, e dire che ne avrei proprio bisogno, ho preso un gran brutto raffreddore da aria condizionata, e un po’ di vitamine mi avrebbero fatto bene. Lei si offende, e ci fa pagare solo l’acqua. Magari la prossima volta…
Alle cinque arriva la nostra nave, un ferryboat-carretta-del-mare utilizzata da gente thai e da una manciata di turisti saccopelisti come noi.
È divertente mischiarsi ai thai, capisci un po’ di più il loro modo di vivere e di prendere la vita.
Una famiglia numerosa si è portata un cartone su cui sedersi sul ponte superiore, tira fuori tazze e bottiglie di Mekong (il whisky di riso più comune, 35 gradi…) e un’infinita varietà di snack dolci e salati, ali di pollo fritte, pesce impastellato, “satay”, gli spiedini alla griglia, patatine, pezzi di mela, banane fritte, papaia.
Stanno lì, mangiano, bevono, parlano, ridono.
In verità noi durante la traversata siamo più attenti al potente temporale tropicale verso il quale sembra dirigersi la nostra carretta del mare, si vedono lampi e fulmini un po’ ovunque intorno a noi, ma per ora sembra che navighiamo in acque chete.
Attraccato il ferry-boat al solito fragile pontile in legno, ci trasferiamo su un pullman con aria condizionata polare, che dopo un’ora di geloni ci scarica alla train station di Surat Thani.
È ancora presto e la fame è tanta. Per una manciata di Bath, l’equivalente di neanche tre euro in due, mangiamo a lato strada un piatto di riso e pollo saltati nel wok, con una quantità tale d’aglio e cipolla da ammazzare un vitello, altro che batteri… Poi, finalmente, saliamo sul nostro sleeping train, bello, molto démodé, molto “A qualcuno piace caldo”, con le cuccette parallele al treno, riparate da tende blu, più pulito della maggior parte dei nostri treni. Persino la toilette mi stupisce: alla turca, praticamente un buco in terra, con una pistola ad acqua per pulire il tutto.
Dormo come una bambina…
26 agosto 2006
Mi risveglio nelle campagne di Bangkok, in mezzo a risaie e alberi di banane.
In un attimo le cuccette diventano sedili e, molto lentamente – e anche molto in ritardo, bisogna dirlo – arriviamo alla stazione di Hualamphong, nel delirio di Bangkok.
Nell’agenzia T.A.T. al secondo piano prenotiamo un hotel per la notte (dall’agenzia costa meno, anche se lo prendi un po’ a scatola chiusa) e andiamo a riposare per un’oretta.
Bangkok ti imbottisce fino al midollo di caos e frastuono, e nel pomeriggio, complice il raffreddore, la patisco un po’. In giro con il taxi si muore dal freddo per la sindrome thai da aria condizionata, e con i tuk tuk si respira una gran quantità di smog, che qui non scarseggia mai.
In più oggi è sabato, il traffico è davvero congestionato, e per sbaglio finiamo nella zona di Siam Square, cuore dello shopping thai, con immensi centri commerciali collegati fra loro, gran quantità di gente, repentini sbalzi di temperatura.
Non piove tanto, ma un po’ piove. Per non rischiare di stare troppo male, dopo una zuppa di carne e patate dal gusto indiano mischiata a riso bianco, optiamo per un po’ di riposo, nonostante chiunque ci dica di andare a vedere gli show notturni di Patpong…
Il mio raffreddore mi riempie la testa ancora adesso, ma stasera sto un po’ meglio, ho preso due aspirine e una medicina tradizionale thai che mi ha dato il farmacista, a base di sette erbe, con un forte gusto di liquirizia.
Quindi stasera non voglio chiedere troppo a me stessa, domani non voglio avere più il naso che cola e la gola che raschia.
Si va ad Ayuthaya in mattinata e poi, alla sera, altro treno notturno, direzione Chiang Mai.
27 agosto 2006
Il raffreddore non mi ha ancora abbandonata, ma stamattina mi sento decisamente molto più in forma.
La colazione dell’albergo è drammaticamente a buffet, stimolandoci un senso del “voglio tutto tanto costa uguale” e quindi via libera a un gran miscuglio di breakfast internazionali, würstel, pancake, uovo fritto, pane tostato con marmellata e miele, caffè, succo d’arancia, ananas fresco. Per senso del pudore, o forse perché il breakfast time è quasi scaduto, saltiamo solo il riso fritto e la zuppa thai di chissacosa.
Poi, zaino in spalla, andiamo alla stazione con il solito taxi-pinguino. Bus station. Per questa gita a Ayuthaya ci siamo voluti concedere il bus pubblico, 50 BHT in due, un euro…
Il viaggio è discretamente lungo, ovviamente il bus pubblico si ferma in ogni cittadina, ma come al solito permette di riempirci gli occhi con un po’ di vita thai.
In giro ci sono tanti cantieri. Sembra che l’edilizia sia un campo in grande movimento. Si vedono tante case in costruzione, con mezzi sgangherati e una quasi totale assenza di norme di sicurezza. A seconda del luogo i ponteggi sono in travi di legno o in bambù, tutti storti, legati con corde. Il materiale si tira su a braccia, con le carrucole, le carpenterie del cemento armato si fanno arrampicandosi scalzi sulle gabbie di ferro dell’armatura, anche a dieci metri d’altezza. I muratori, tra i quali davvero tantissime donne, si coprono il viso e la testa con le loro magliette, una sorta di leggero passamontagna, contro la polvere, contro lo smog. Si vedono solo gli occhi stanchi. Nelle ore più calde li vedi dormire in cantiere, ma poi, accesi gli alogeni, lavorano fino a tarda notte. Chissà che orari fanno…
Arriviamo ad Ayuthaya verso l’una e prendiamo un tuk tuk per lasciare gli zaini alla stazione. Ci avevano detto che avremmo trovato un deposito ad armadietti, ma in realtà ci ritroviamo a posare lo zaino in una stanza a scaffali, accessibile a chiunque lavori in stazione. Ovviamente non ci lasciamo nulla di valore…
Guida alla mano ci dirigiamo a piedi verso la città antica, attraversando il canale con una chiatta, 2 BHT a testa.
C’è un mercato di generi alimentari. La carne a fette nei cesti di vimini non è molto allettante per condizioni di conservazione, e si scorgono un paio di topi che galoppano fra le gambe dei tavoli di un ristorante, ma per il resto il mercatino è carino, e molto animato, pieno di odori, colori e volti.
Arriviamo alla città antica in piena sindrome di disidratazione, beviamo un succo in un baretto e ci tuffiamo fra le rovine.
I templi sono molto imponenti, e fra le statue, le colonne e i muri in mattoni spiccano i “chedi” pieni di sculture. Sono grandi coni in pietra o mattoni, in origine ricoperti d’oro, dove si conservano le reliquie, a volte del Buddha storico. In alcuni, qui, si può entrare. Nella maggior parte, compresi quelli ancora in uso, è proibito anche ai fedeli.
Non so nulla, o quasi, dell’architettura orientale, ma sono comunque affascinata dalla gran quantità di immagini che si vedono in giro. Tanti frammenti di statue di Buddha, e poi draghi, fiori, elefanti.
Siamo nell’antica capitale della Thailandia, i templi risalgono più o meno al XIV-XV secolo, e qui ogni pietra trasuda storia, fra grandi maestosità e segni delle conquiste birmane.
Vaghiamo a zonzo fra un tempio e l’altro, in qualcuno entriamo, qualcun altro lo guardiamo da fuori.
È domenica, ci sono tanti turisti in giro, e infatti in fondo alla strada, dove c’è il tempio più grosso, c’è il pienone, con tanto di elefanti turistici per fare una passeggiata.
Andiamo a vedere il Wat Mongkhon Bophit, un tempio (wat) pieno di fedeli, che contiene una delle più grandi immagini del Buddha di tutta la Thailandia. C’è un po’ troppa gente, e fuori c’è un posticcio mercatino, ma comunque per noi è la prima volta, si rimane abbastanza affascinati dalle ritualità di altre religioni, e qui ci sono i fiori di loto, gli uccellini da liberare esprimendo un desiderio, gli incensi e i tre rintocchi da dare con un martelletto su una campana di bronzo nel pronao.
Subito lì accanto c’è il Wat Phra Si Sanphet, bello, imponente, usato in passato anche come palazzo reale. Fra le sue rovine si ergono tre chedi allineati, molto suggestivi e per questo anche molto inflazionati nelle cartoline locali.
Prendiamo un tuk tuk per cercare un posto dove prendere una birra e mangiare, ma Ayuthaya sembra una città che non ha molto turismo serale, fatichiamo un po’ a trovare un locale accettabile.
Andiamo alla fine lungo il canale, in un ostello molto caratteristico, una vecchia casa thai interamente in tek, con una bella terrazza galleggiante.
Lì ci fermiamo a mangiare, e anche se io mi ustiono la bocca con un piatto di noodles invasi di peperoncino e spicchi d’aglio crudo (almeno una testa!) la serata è molto piacevole.
Passano in continuazione dei grandi barconi, probabili ristoranti galleggianti, o forse mini-crociere, pieni zeppi di thai, tutti vestiti con la maglietta della domenica, quella gialla, con le insegne della corona sul petto.
Sembrano divertirsi molto, fra cibo e karaoke. Passano, illuminano il canale e se ne vanno, lasciandoci lì nel silenzio della sera.
Incontriamo due ragazzi di Genova, una giovane coppia che ci racconta di essere appena stata dove stiamo andando noi, a Chiang Mai. Ci danno due dritte, ci raccontano un paio di aneddoti, ma per noi è già tempo di andare.
Cerchiamo il vicolo per riprendere la barca che attraversa il canale, ma non c’è verso di trovarlo, forse di sera le chiatte non vanno. Non rimane che il tuk tuk.
Contrattiamo il prezzo e siamo in stazione, per scoprire che qualcuno ha cercato di frugare nello zaino di Fabrizio alla ricerca di qualcosa da rubare. Ma non sembra mancare niente.
Arriva il treno, finalmente.
La cuccetta è, al solito, comodissima, anche se fa un po’ freddo, maledetta aria condizionata…
Ma il treno è come una culla…
28 agosto 2006
Stanotte, nel dormiveglia, mi sembrava che il percorso del treno fosse complicato, un paio di volte ho avuto la sensazione di muovermi su grandi salite…
E infatti quando fa luce ci si accorge di un paesaggio totalmente diverso, direi quasi di montagna, anche se di montagna tropicale.
È nuvolo e a tratti piove, ma la vegetazione è fitta fitta, con la jungla e un compatto sottobosco di liane e piante varie. Ci vorrà una bella manutenzione su questa linea, credo che la jungla tenda a ingoiare tutto…
Scendiamo a Chiang Mai e siamo letteralmente assaliti da orde di procacciatori, chiunque ti offre qualsiasi cosa, una guest house, un albergo, un taxi, un tuk tuk.
Riusciamo a contrattare un prezzo ragionevole per un tuk tuk, ma solo dopo aver contrattato ci accorgiamo che il guidatore non ha le mani.
Ci guardiamo. “Ma come farà a guidare?”
Ma ormai per i dubbi è tardi, e poi non ce la sentiamo di discriminarlo, poverino…
In realtà l’autista, che a guardarlo bene sembra devastato dalla lebbra, guida come tutti gli altri, cioè malissimo, come un pazzo in mezzo alle macchine.
C’è molto traffico anche qui, nonostante la nomea di città mistica.
Ci sediamo in un bar vicino a un ristorante che si chiama “Lanterna di Genova”, peccato solo per quella bandiera della Sampdoria…
Dopo aver ordinato la colazione ci giriamo e… “Fabio! Mirella!”
“Fabrizio! Valeria!” Non è possibile…
Due nostri amici di Genova, che hanno un negozio di roba etnica a Sestri Ponente, sono in giro fra Vietnam e Thailandia per comprare e prendere contatti con i fornitori.
Baci, abbracci, contentezza per la coincidenza…
Troviamo la camera nel loro albergo, il prezzo è buono, la stanza è pulita.
Ci riposiamo un po’ e siamo già in strada. Vorremmo prendere una bici in affitto, ma Fabio ci avverte che sta per piovere.
Non prendiamo la bici, ma sottovalutando il concetto di “pioggia” facciamo lo stesso un giro in città, cercando un paio di templi segnalati dalla guida.
A parte il turistico tempio di Ayuthaya non eravamo mai entrati in un santuario vero… È bellissimo. C’è una pace seducente, tutto brilla di oro e di rosso, e il Buddha ha un’espressione che trasmette tranquilla serenità.
Siamo nel Wat Chiang Man, il più antico tempio di Chiang Mai, XIII secolo, con massicce colonne in tek e tante piccole e grandi statue del Buddha.
Fa impressione pensare a cosa succedeva in Europa quando questo tempio è stato costruito. È tutto così diverso…
Usciamo dal tempio sotto un acquazzone monsonico di entità davvero ragguardevole…
Siamo fradici. Ci ripariamo un attimo in un bar e ordiniamo un Mekong, ma la ragazza thai porta un bicchiere enorme, praticamente una spuma, e ci provoca un attacco di ridarella alcolica…
Appena la pioggia si calma un po’ torniamo al tempio, per finire il nostro giro. Voglio vedere il chedi, che infatti è bellissimo, con dei grandiosi elefanti scolpiti. Si deve solo stare attenti, perché su questi vialetti in mattoni muschiati si scivola che è un piacere…
Decidiamo di andare a vedere anche il Wat Phra Sing, un po’ più recente, XIV secolo, davvero molto bello e pieno di monaci, soprattutto giovanissimi.
Ogni thailandese passa un periodo della vita a studiare da monaco, generalmente dopo la fine degli studi, ma non tutti scelgono di farlo per la vita, anche se per le loro famiglie sarebbe un onore.
I nostri monaci sono sparsi un po’ ovunque, si fanno gli scherzi, chiacchierano, leggono, si riparano dalla pioggia.
Tutto intorno agli edifici del tempio c’è un prato verdissimo e le loro tuniche arancione sono davvero un bello stacco di colore…
Verso le cinque accorrono tutti nell’edificio principale. Andiamo anche noi.
È l’ora della preghiera. Tutti i monaci la recitano assieme, con una voce diaframmatica mono-nota, con le mani giunte. Sono seduti in ginocchio (non si possono mai puntare i piedi verso l’immagine del Buddha) e tra loro girano anche alcuni cani che, per spirito buddista, nessuno scaccia.
Rimaniamo anche noi in ginocchio, la preghiera collettiva è indubbiamente seducente, molto rilassante. Sarebbe bello capire le parole…
È divertente vedere che tra i monaci, soprattutto fra quelli più giovani, ricorrono le stesse modalità che fra noi si vedevano a scuola, o, per chi lo ha fatto, a catechismo. Piccoli scherzi, distrazioni, risolini subito nascosti al passaggio del bonzo anziano, vestito di porpora.
Usciamo da wat con una bella sensazione di rilassamento e con la cantilena in testa…
Facciamo doccia e micro-riposino, poi usciamo con i nostri amici per visitare il rinomato bazar notturno di Chiang Mai, aperto dalle cinque a mezzanotte. Il bazar, come tutti i bazar, è un gran casino di tuk tuk, taxi gente e bancarelle.
Ci sono vari edifici con i negozi dentro e, intorno, chilometri di banchetti in cui tutti ti offrono di tutto, dai rolex taroccati alle magliette di Materazzi, dalle lampade di carta ai fiori scolpiti nel sapone, dalle sciarpe di seta ai monili di argento o pietre dure.
Giriamo un po’ e poi mangiamo in un ristorantino all’aperto approfittando dell’assenza di pioggia, che dicono sia costante a Chiang Mai in questo periodo dell’anno.
E la serata scorre via così, tra piccoli acquisti e grandi contrattazioni.
E infatti contrattiamo anche il tuk tuk per tornare a casa. L’autista fa un po’ di sceneggiata perché sostiene che si tratta di un viaggio lunghissimo, alla fine raggiungiamo un accordo e lui, con tutta probabilità, allunga il percorso per dimostrare che aveva ragione.
Andiamo a nanna, in fondo stanotte abbiamo dormito in treno…
E poi bisogna riposarsi, domani alle 8 ci passano a prendere in albergo con un minibus.
Sì, perché abbiamo prenotato un’escursione…
29 agosto 2006
Con gli occhi ancora un po’ stropicciati dal sonno partiamo con il pulmino.
Siamo in otto, noi e quattro ragazzi francesi, più l’autista e la guida, un signore di una certa età, dagli atteggiamenti molto orientali.
Prima tappa… trekking sull’elefante!
Arriviamo in una piana in mezzo alla jungla. C’è un torrente, ma quello lo affronteremo più tardi, per fare rafting con le zattere di bambù…
Arrivano tre elefanti. I primi due sembrano tranquilli, e sono montati da due thai.
Il terzo sembra un elefante più giovane, un po’ più irrequieto, ed è governato da un ragazzo karen, un ragazzo, per capirci, della tribù delle donne giraffa.
A noi viene assegnato, per l’appunto, quest’ultimo…
In realtà il giro sull’elefante non è che un giretto sulla collina, attraversiamo il torrente e facciamo pascolare il pachiderma nella jungla, un po’ di tensione quando il ragazzo karen scende e ci lascia in balia dei desideri gastronomici dell’animale pur senza perderlo mai d’occhio, ma in realtà è tutto davvero divertente. L’elefante è simpatico, gli carezzo la testa ispida, piena di capelli a spazzola, durissimi, con una pelle veramente coriacea, dura come l’asfalto.
Sono spassosi gli elefanti, appena possono cercano con la proboscide i tronchi di bambù più giovani, li sradicano e ne fanno scorpacciata, usando il loro naso come fosse una mano. Ogni tanto, quando cercano di allontanarsi troppo dalla rotta prestabilita, vengono richiamati, ma sono ubbidienti, vogliono solo mangiare le loro tonnellate di bambù, e si rimettono in marcia.
Il ragazzo karen è davvero affascinante, sembra nel suo habitat, salta sui rami per romperli e aprire nuove strade all’elefante, e poi ci risale sopra, cavalcando la sua testa come fosse la cosa più facile di questo mondo, mentre noi ci arpioniamo al seggiolino e ci sembra di non avere abbastanza mani per essere saldi…
Dopo un’oretta di cavalcata ci riportano al punto di partenza. Bisogna premiare gli animali, una donna thai ci offre delle banane, e una scritta ci ricorda che al pachiderma non basta certo una banana, come minimo bisogna regalargliene un casco…
E così compriamo un casco, e loro ti vengono incontro con la proboscide tesa, annusando e soffiando come tifoni, e afferrano con il loro naso prensile una banana per volta, buccia e tutto, sono proprio teneri, se non fossero così grossi ti verrebbe voglia di portartene uno a casa… Ma non si può proprio…
Dopo il riding ci si tolgono le scarpe e si posa tutto sul minibus. È il momento del rafting sulle zattere di bambù. Niente di troppo avventuroso, ci sono un paio di salti di quota in cui la zattera sbatacchia un po’ sulle rocce, un tedesco nella canoa dietro cade in acqua, ma il torrente non è profondo, lui è fradicio ma ride…
I ragazzi thai che guidano le zattere sono dei veri burloni, ci bagnano con le aste di bambù con cui manovrano la chiatta, ci buttano acqua addosso e cercano di farci rovesciare… Ma teniamo duro e, per quanto completamente bagnati, portiamo a termine il percorso.
La tappa successiva dell’escursione prevede la visita a un villaggio di una tribù delle colline, un villaggio di Hmong, tribù di origini cinesi.
Le tribù delle colline sono minoranze etniche che vivono nelle regioni di montagna, con lingua, credo spirituale, tradizioni e abbigliamento peculiari.
Sono persone che non appartengono a nessuno stato ufficiale, ad alcune è concessa l’istruzione gratuita e l’assistenza medica, ad altre nemmeno quello. Sono monitorate da alcuni istituti di ricerca, ma vivono in un mondo che non va oltre i confini del loro villaggio, visitato più volte al giorno da comitive di turisti a cui vendere qualcosa, soprattutto prodotti tessili e monili.
La tribù che visitiamo vive in un villaggio di quattro o cinque capanne di bambù e paglia, hanno i volti simpatici, sorridono e cercano di venderti le loro cose.
Compriamo un copriletto e una sciarpa molto belli, qui non si contratta, non è etico.
In inglese sanno dire solo i prezzi, e poi “grazie”, in tailandese.
Un bimbo e una bimba ci seguono come ombre cercando di vendere un braccialetto di semi. Sono due fratellini, e sono bellissimi. Compriamo un braccialetto a ciascuno dei due. Ce lo mettono al polso, lo vogliono legare loro, lasciandosi fotografare.
L’unico vecchietto del villaggio vorrebbe venderci anche degli strumenti musicali e una pipetta, ma rifiutiamo.
È l’ora di andare, con lo stupore di chi guarda una cultura così diversa dalla nostra risaliamo sul minibus per andare a pranzo.
Dopo i noodles e il riso si cammina un po’, fino a una cascata dove si fa anche il bagno sfidando la corrente e le rocce scivolose del fondo. Poi si marcia in mezzo alla jungla e ai banani per andare a visitare un altro villaggio tribale, questa volta dei Lahu.
È un villaggio di fondovalle, caldo e appiccicoso di umidità.
Non c’è quasi nessuno, un bambino dorme e cani e galline scorrazzano in giro.
Per 3 BHT ti fanno provare a tirare con una specie di balestra di legno, ma per il resto il villaggio sembra un po’ posticcio, vendono addirittura dei ciondoli della Nike…
Siamo distrutti, nel pulmino di ritorno siamo invasi da una sonnolenza di gruppo, ma siamo stati fortunati, per tutto il giorno non ha piovuto.
Dopo un po’ di riposo in albergo siamo di nuovo al bazar notturno, per essere di lì a poco nuovamente sorpresi dalla pioggia torrenziale.
Con i nostri amici andiamo a mangiare alla “Lanterna di Genova”, pasta e pizza, per una volta facciamo i campanilisti gastronomici…
Il padrone è un ragazzo di Sestri e si chiacchiera con lui e con gli altri due sestresi che vengono qui da 15 anni.
Sono loro che ci consigliano di andare a Chiang Rai con una macchina in affitto, dicono che le strade sono facili da trovare e che sono estremamente praticabili. Mah… non sono molto convinta, sono un po’ stanca, e l’idea di mettermi domani in macchina fino al Triangolo d’Oro, cinque ore a andare e cinque a tornare, non mi alletta granché, soprattutto perché qui si guida a sinistra, le indicazioni sono spesso solo in alfabeto thai e fa buio già alle sei e mezza.
Mi sa che gli amici di Fabio l’hanno fatta un po’ troppo facile… Forse qui in giro c’è un po’ troppo oppio…
30 agosto 2006
Non abbiamo affittato nessuna macchina.
Un po’ perché né io né Fabrizio avevamo voglia di fare un viaggio Genova-Napoli andata e ritorno in giornata, un po’ perché stanotte Fabrizio è stato male di stomaco e intestino, chissà, forse qualcosa che ha mangiato. Paradossale è che ieri sera abbiamo mangiato al ristornate italiano…
Colazione leggera, tè e tanta acqua, mattinata e mezzo pomeriggio a riposo, ci informiamo all’agenzia di viaggi sui costi e le disponibilità degli aerei da Chiang Mai a Bangkok, e ci convince sempre di più l’ipotesi del volo interno rispetto al viaggio notturno in treno…
Sembra che a Ko Chang, l’isola in cui vogliamo andare, non piova come qui, magari riusciamo a fare ancora un po’ di mare…
Nel pomeriggio Fabrizio sta un po’ meglio, e per il momento ha persino smesso di piovere, così decidiamo di andare a vedere il monastero di Doi Suthep, a 16 Km. da Chiang Mai, in cima a una montagna di quasi 1700 metri.
Si dice che una reliquia del Buddha storico venne posta sul dorso di un elefante bianco, lasciato poi libero di scorrazzare in modo che indicasse il luogo dove costruire un tempio che la custodisse. Il pachiderma si fermò e morì in un punto di Doi Suthep, dove gli abitanti di Chiang Mai costruirono, appunto, il wat, con un grande chedi ancora oggi tra i più venerati della Thailandia.
Prendiamo quindi un songthaew, il taxi collettivo, si contratta malamente il prezzo e si va.
Il tempo è clemente, e mentre saliamo abbiamo proprio la sensazione di andare in montagna! Siamo avvolti dalla nebbia, e la strada sale su, su, sempre più su, piena di tornanti.
Siamo avvolti da una stranissima aria di montagna…tropicale, con palme, alberi di banano e liane. E il caldo, niente a che vedere con le Alpi in una giornata di pioggia…
Per salire al tempio ci sarebbero da fare ancora 300 scalini, ma, viste le gambe ancora un po’ molli, decidiamo di prendere la funicolare, faremo la scalinata solo in discesa…
Siamo senza fiato. Appena messo piede nel tempio siamo circondati dall’oro e dai colori delle tessere di mosaico, dai draghi in legno, dalle statue di elefante, dai sorrisi dei Buddha, dal suono dell’infinita quantità dei campanellini appesi, mossi dal vento.
Passeggiamo scalzi guardandoci intorno a bocca aperta, osserviamo i fedeli e i loro rituali a noi semi-sconosciuti, i tre giri a piedi intorno al chedi tutto d’oro, con un fiore di loto fra le mani giunte, i bastoncini di incenso davanti alle statue del Buddha (ma quante sono? Ce n’è una addirittura verde, sembra di smeraldo, probabilmente è di giada trasparente, e forse è una copia del famoso Buddha di smeraldo di Bangkok, che una volta si trovava qui…), le monetine attaccate ai pannelli con la cera fusa, i saluti a capo chino alle immagini sacre.
Rimaniamo lì un bel po’, ci si sta bene, il cielo ci concede anche un po’ di sole, e allora tutto splende, il chedi dorato è davvero maestoso, da quanto luccica fa venire quasi la ridarella, come quando si scoprono i tesori più rari, come quando si apre un baule pieno del luccichio delle pietre preziose.
Non basta il tempo per riempirsi gli occhi di tanta delicata bellezza, forse sarebbe bello fermarsi a dormire qui, magari fare meditazione, o semplicemente godersi il silenzio accompagnato dal suono dei campanellini…
Ma è l’ora di scendere, facciamo l’imponente scalinata e cerchiamo un songthaew, sul quale chiacchieriamo con una ragazza di Boston che, per l’appunto, aveva trascorso lì la notte.
Il taxi ci lascia al night bazar, Fabrizio va in albergo a riposarsi un po’ e io mi rituffo nella miriade di botteghe e bancarelle, vegliata da un grande arcobaleno che fa capolino fra gli edifici insieme agli ultimi raggi di sole.
In un attimo passano due ore e, piena di sacchetti e sacchettini corro anch’io in albergo, sotto un impetuoso acquazzone. Ho l’impermeabile, ma serve a poco…
Fabrizio ha qualche lineetta di febbre, niente di allarmante, un po’ di terremoto gastrointestinale la fa venire, ma non sembra salire a livelli preoccupanti. E poi, tanto, non si può fare nulla, qui non accenna a smettere di piovere, mi sa che la stagione delle piogge è ufficialmente iniziata.
Mangiamo qualcosa nel ristorante thai all’angolo, con qualche difficoltà linguistica riusciamo a ordinare un riso bollito per Fabrizio (“Qual è la differenza fra il plain rice e il fried rice?” “Yes”) e schivando pozzanghere lacustri e cascate dalle grondaie torniamo in albergo.
Magari domani smette…
31 agosto 2006
Piove, piove e piove…
Non ha smesso mai. Tutta la notte, tutto il giorno. E con l’umido che c’è non asciuga niente.
Cominciamo ad avere un po’ di sconforto, c’è chi dice che a Ko Chang non piove ancora, c’è chi dice che se piove si rischia di rimanere bloccati sull’isola.
Ma siamo ottimisti e decidiamo di andarci. Si parte fra due giorni con l’aereo per Bangkok.
Già che siamo in agenzia prenotiamo un’escursione per domani, siamo venuti fin qua mica per niente, vogliamo andare a vedere il Triangolo d’Oro e, mio grande desiderio, una tribù delle donne karen, le donne giraffa, le long neck women.
E oggi che si fa? Niente, si gira ancora un po’ per Chiang Mai, si sta un po’ con i nostri amici che partono stasera e si fanno ancora delle compere al night bazar, che in realtà è ancora più vasto di quanto pensassimo.
La pioggia diminuisce in serata, e per cena scoviamo un ristorante thai molto bello, in tek, con piatti buonissimi e gusti delicati. La zuppa di pollo al latte di cocco è sublime e il conto veramente irrisorio…
Speriamo che il tempo regga, domani abbiamo la nostra lunga escursione.
Beh, perlomeno in questi giorni ci siamo riposati…
1 settembre 2006
Ci svegliamo prestissimo.
Alle sette e un quarto siamo già sul pulmino. Recuperiamo il resto del gruppo, otto persone: un’irlandese, due danesi, un austriaco, noi e due francesi. Viva l’Europa…
La guida è un ragazzo simpatico che parla molto bene inglese, si chiama Nun, così mi pare di aver capito, che in lingua thai significa “forever young”. Così “se non vi ricordate il mio nome thai potete pure chiamarmi Mister Forever Young!”
Dopo circa un’ora ci fermiamo a fare colazione in un mercatino sorto attorno a una sorgiva di acqua calda dove mettono a cuocere le uova dentro ai cestelli di vimini. Poi ripartiamo.
Passiamo Chiang Rai e ci dirigiamo verso il Triangolo d’Oro.
Il viaggio è stato lungo, siamo un po’ rattrappiti, e ci sgranchiamo le gambe visitando un tempio in rovina nei dintorni di Sop Ruak, centro ufficiale del Triangolo d’Oro, in cui il fiume Mekong divide Thailandia, Myanmar e Laos.
E finalmente eccoci sul Mekong, fiume imponente, largo e pieno di corrente. Le sue acque marroni riportano alla memoria le immagini sulla guerra del Vietnam. Ci vogliono due giorni di navigazione per andare in Vietnam, e tre per arrivare in Cina…
Muniti di giubbotto salvagente saliamo sulla long-tail boat, che per forma e peso è maneggiabilissima. E infatti il barcaiolo parte a raffica, corre come un forsennato sulle acque marroni. Le piroghe sono bassissime, sembra di stare sul pelo dell’acqua…
Ci reggiamo ai bordi con mani, piedi e unghie, non ci teniamo a fare il bagno in queste acque melmose, soprattutto con portafogli e macchine fotografiche…
Poi rallenta, superato un tempio a colori sgargianti e una statua gigante del Buddha, proprio sul fiume, ci mostra il lato birmano della confluenza fra il fiume Ruak e il fiume Mekong, sul quale sorge un orribile albergo con casinò, il Golden Triangle Paradise Resort. Foto di rito e via, si riparte a tutta birra, attraversando la diagonale del fiume, verso la riva laotiana.
Sbarchiamo quindi in territorio del Laos, dove c’è un villaggio microscopico composto prevalentemente da bancarelle.
Paghiamo una tassa di sbarco di 20 BHT a testa e ci fanno un timbro su un foglietto come souvenir. “I’m here” c’è scritto, e poi “DonSao Laos, Golden Triangle”. Io sono qui. Che sagome…
Ci fanno assaggiare un liquore fortissimo stillato da bottiglie in cui sono in infusione serpenti e scorpioni che sembrano in formalina. Beviamo solo un goccetto, senza paura di malattie. Il gusto è a metà fra il medicinale alcolico a 90° e la benzina verde, figuriamoci se un batterio resisterebbe…
Ci viene in mente che il ragazzo di Genova conosciuto ad Ayuthaya ci aveva raccontato della sua escursione al Triangolo d’Oro, precisa alla nostra, e che, insieme ad altri racconti, ci aveva detto: “Poi ci siamo fatti un giro in Laos…” con l’aria del viaggiatore che se la tira un po’.
Ecco, ora anche noi lo potremo dire!
Quindi, finito il nostro “giro in Laos” risaliamo sulla piroga e il nostro barcaiolo ci riporta in Thailandia con una velocità da gara di offshore.
L’escursione è a metà, dopo mangiato ci rechiamo ai due villaggi delle tribù delle colline, tutto il resto sarà guardarsi attorno nel viaggio di ritorno.
Il primo villaggio è un villaggio di Akha, provenienti dal Tibet. Le donne akha si vedono in giro in qualsiasi mercato della Thailandia, fino a Bangkok. Girano con dei cestelli o delle cassette appese al collo, vendendo in prevalenza monili, richiamando l’attenzione dei passanti con uno strumento a forma di rana, di legno, che imita il gracidare. Masticano betel, una droga vegetale che poi sputano, e che macchia loro le labbra di rosso e i denti di nero.
Abbiamo visto i denti neri anche poco fa a Mae Sai, valico ufficiale di frontiera con il Myanmar. Città orribile, dove le persone vanno solo per farsi rinnovare il visto per la Thailandia, che dura solo un mese. Escono, fanno 50 metri a piedi, entrano in Myanmar, escono di nuovo e rientrano in Thailandia.
Nel villaggio akha cercano di venderci qualsiasi cosa, sono piuttosto insistenti, e all’aspetto, bisogna dirlo, abbastanza inquietanti.
Poi, subito dopo, ecco le capanne delle donne karen.
Sono lì, con i loro collari pesantissimi (ne prendo uno, e mi viene il mal di testa solo al pensiero di portarlo sempre al collo). Sono bellissime e ti sorridono con grande dolcezza.
La guida ci spiega che vengono dal Myanmar, e che sono scappate per sfuggire a cruente guerre etniche.
Ci sono varie leggende sulla loro usanza di aggiungere anelli a collo, gambe e braccia.
Una vuole che gli anelli fossero il segno distintivo per le bambine nate con la luna piena, una fortuna, e che poi la deturpante abitudine sia stata estesa a tutte. Un’altra narra una storia secondo cui i progenitori della tribù erano figli del dio del vento e della femmina di un drago, e che le donne si adornino così per assomigliare, appunto, a un drago. C’è chi dice che invece gli anelli servissero a salvare le donne nei campi dagli assalti delle tigri.
Ad ogni modo deve essere difficile vivere con tanto metallo addosso, ogni anello pesa un paio di etti, ogni anno ne aggiungono uno al collo, fino a venticinque, alle ginocchia e ai gomiti, e poi ancora al collo, agganciati di lato agli altri. E il collo si allunga fino a tre volte, la cassa toracica si schiaccia e qualsiasi gesto diventa rigido, come con un’armatura. Non è vero che muoiono se tolgono la bardatura, ma di sicuro i muscoli sono atrofizzati e i tessuti tumefatti, come quando ci si toglie un gesso…
Ti guardano, con i loro anelli si fanno fotografare e ti sorridono, spesso con gli occhi un po’ tristi.
Le guardo anche io con dolcezza, e mentre ognuna di loro aspetta che le si compri qualcosa, sciarpe, monili, bracciali dall’aspetto seriale, penso che forse, è vero, sono un po’ come animali da safari, lì, in mostra nelle verande delle loro capanne, a farsi osservare e immortalare, ma penso anche che lavorare nei campi o trascinare un carretto al mercato con quel peso addosso deve essere ancora più duro, e il sostentamento della tribù grava tutto su di loro, visto che tanti uomini sono morti nei tentativi della Birmania di cancellare le minoranze etniche.
E allora penso che debbano essere loro a scegliere, fino a quel momento pago volentieri il biglietto di entrata al villaggio, se può esser loro utile, e compro due bracciali, nell’attesa che decidano in piena libertà se in futuro mettere ancora i collari alle loro figlie o se scegliere l’integrazione sacrificando la tradizione.
Ma non siamo noi a dover decidere cosa è meglio.
Assieme alle long neck ci sono anche le long ears, con piattelli deformanti al lobo, e alcune donne lisu, con pesanti cinture di metallo.
Non smetterei mai di guardare nessuna di loro.
Le avevo viste in fotografia, avevo persino visto dei documentari in cui si spogliavano per una volta dei loro anelli, mostrando un lungo collo viola e impressionante, che anche a loro sembra proprio brutto, e le fa sentire nude, perciò la maggior parte rimette il collare…
Ma di persona fanno proprio effetto, vederle ridere, muoversi, lavarsi in una fatiscente doccia, correre per il villaggio.
Si rimane a bocca aperta…
È l’ora di tornare, il viaggio è lungo, tra paesaggi di risaie e scorci di montagna.
Ci siamo riempiti gli occhi di Thailandia, oggi. È stato davvero bello.
Con le gambe atrofizzate da tre ore di macchina rientriamo in albergo. Non piove, ma è tardi, i ristoranti sono quasi tutti chiusi.
Troviamo aperto solo “da Roberto”, ristorante italiano.
Ordiniamo in inglese due bistecche di maiale “without vegetables” a una signora thailandese, che appena ci sente parlare in italiano ci dice, con accento thai-partenopeo: “Ma siete italiani? Ma allora cosa mi fate parlare in inglese, parliamo in italiano, che è meglio! E poi i pomodori e l’insalata ve li metto nel piatto perché sennò la bistecca si presenta male, poi semmai non li mangiate, va ‘bbuono?”
È la moglie di Roberto, il proprietario e cuoco, ed è proprio una sagoma.
Non resta che preparare lo zaino, domani la sveglia è di nuovo all’alba, il nostro aereo parte alle 7 e 20…
2 settembre 2006
Ed eccoci pronti per partire.
L’aeroporto di Chiang Mai è grande e ben attrezzato, partono da qui un’infinità di voli per Bangkok.
Il nostro aereo è della Nok Air (l’aereo con il becco…), e il pilota che ci fa venire i pesci rossi nelle mani con la sua predilezione per la picchiata in fase di atterraggio, ma alla fine mettiamo i piedi a terra sani e salvi.
Il taxista è antipatico e accattone, vuole sigarette, soldi, euro, ci guarda nel portafogli mentre paghiamo, cerca di fregarci prima sul prezzo della corsa e poi sul resto da darci. Raggiungiamo la Eastern Station per prendere il bus pubblico per Trat. Siamo come al solito gli unici turisti.
Il caldo e lo smog di Bangkok ci hanno di nuovo strinati. Oggi l’aria condizionata del bus è un paradiso…
Il viaggio è lungo e snervante. Dopo quasi sei ore raggiungiamo Trat, e poi, con un songthaew, il porto di Laem Ngop.
Cioè, porto… diciamo un imbarcadero, con un casottino che funge da biglietteria, ristorante, tabaccheria, bar, negozio di souvenir e spaccio generico (e infatti, dopo aver letto che a Trat e Ko Chang c’è la malaria compriamo un bel repellente alla citronella!)
Finalmente ci caricano su un songthaew per portarci alla nave.
Trecento metri di tragitto. Ci abbiamo messo di più a caricare i bagagli che se fossimo andati a piedi.
La barca – perché di nave non si può proprio parlare – è la solita mezza carretta di legno, con tutti gli zaini ammucchiati a poppa.
Come sempre ci sono un sacco di donne che lavorano nelle operazioni portuali: ormeggiano, vendono biglietti, cibo e tutto quello che è vendibile.
Sembra davvero che le donne siano una grande forza nel mondo del lavoro thailandese, e fanno anche lavori a cui difficilmente noi europee abbiamo accesso.
Il viaggio è breve e tranquillo.
La poppa della nave è ornata da propiziatorie ghirlande di orchidee, ma mi ritrovo poco romanticamente a pensare che se ci fosse mare mosso con questa barca non basterebbero certo i fiori…
Sbarchiamo a Ko Chang nel porto di Ban Pao, un molo di legno con un ristorante in rovina sulla spiaggia.
L’isola è primordiale.
Già dalla barca si capiva, ma da terra fa ammutolire.
È montagnosa, con una vegetazione così fitta da sembrare impenetrabile.
Saliamo nel solito songthaew, direzione White Sand Beach.
Su internet, a Chiang Mai, abbiamo cercato una sistemazione per qui, andiamo a vedere se c’è posto.
L’albergo è bellissimo. Bungalow puliti e spaziosi con davanti le palme e il mare, anche se privo di spiaggia.
La terrazza del nostro volge a occidente. Ci godremo il tramonto…
Ci riposiamo un po’ e poi camminiamo un chilometro fino al paese, un agglomerato di case e ristorantini sulla spiaggia.
E infatti è proprio sulla spiaggia che andiamo a mangiare, tavoli sotto le palme, piedi nella sabbia, un sogno.
La marea sta calando, e mano a mano che il mare si ritira i camerieri aggiungono una fila di tavoli.
È sabato sera, il ristorante è pieno, l’isola sembra abbastanza frequentata. Ma per la maggior parte si tratta di turisti thailandesi, i ricchi di Bangkok che vengono a fare il weekend al mare, con le famiglie, con gli amici.
Una mangiata così, di pesce, non si scorda facilmente, il tonnetto piccolo come un branzino e cucinato alla brace è sublime e sembra impossibile che si spenda così poco.
In due abbiamo speso come a Genova per un aperitivo. Solo uno. E qui siamo sotto le palme da cocco…
Fabrizio chiede a chiunque se è vero che sull’isola c’è la malaria.
Le opinioni sono contrastanti.
Chi ti vuol proporre un alloggio o un ristorante ti dice che la malaria non c’è.
Chi ti vuol vendere un repellente per zanzare ti dice che ci sono dieci casi all’anno, tutti concentrati nella stagione delle piogge. Cioè ora.
E infatti un sagace farmacista riesce a venderci il repellente più costoso della farmacia, quello wild (che costa comunque otto volte meno del nostro Autan in Italia), dicendo addirittura che la malaria è portata anche dai sandflies, i mosquitos che arrivano al tramonto sulla spiaggia. Non gli crediamo un granché, ma per non saper né leggere né scrivere ci cospargiamo con quest’olio un po’ puzzolente ogni centimetro del corpo.
Fortunatamente il nostro bungalow è in un posto ventilato.
Non ci sono zanzare.
Almeno sembra…
3 settembre 2006
In riva al mare si dorme benissimo!
Questa mattina, ritemprati nel fisico e dopo una colazione luculliana, affittiamo un motorino davanti al nostro resort per fare un po’ di esplorazione dell’isola. Fermi non riusciamo a stare mai, vero?
Ci dirigiamo a sud, seguendo la solita strada a montagne russe che taglia la jungla.
Ci sono dei punti con un panorama mozzafiato su tutto l’arcipelago.
Ci fermiamo a fare benzina dall’improvvisato banchetto di gasoline a lato strada. Bottiglie, imbuto, e via…
Facciamo un bagno in una spiaggia bellissima lungo il percorso e beviamo un rigenerante “mix fruit juice”.
Il caldo è notevole, a tratti il cielo è nuvoloso, nero, è l’umidità è soffocante, ma per ora il tempo regge.
Arriviamo a Bang Bao, curioso paesino sul mare. Proprio sul mare, con le case a palafitta. Praticamente un lungo molo con le palafitte a fianco: i negozi, i bar e i ristoranti sotto, e le case al piano di sopra.
Alcuni muratori-anfibi stanno lavorando alla costruzione di una nuova casa. Costume, acqua alla cintola…
Siamo senza parole. Un posto così è davvero strambo. Una vita sospesa sull’acqua, con i bambini che giocano, le donne che cucinano…
Ci spiegano che in questa stagione, una sorta di inverno in cui fa caldo ma piove, non parte nessuna escursione in barca verso il parco marino, perché se il mare si agita ci vuole un attimo a rimanere bloccati su un’isola, magari per la notte. E non è proprio il caso…
Giriamo il villaggio a bocca aperta.
I ristoranti espongono pesce e granchi vivi, di vario tipo, e enormi.
Saremmo tentati di fermarci qui per mangiare stasera, ma non abbiamo capito dove le palafitte scaricano le fogne e dove i pescatori prendono il pesce. La sensazione è che qui peschino dal poggiolo di casa… E poi stavolta il cielo è proprio minaccioso, lì sul monte, e non è bello doversi fare le montagne russe in motorino sotto un acquazzone tropicale… Decidiamo quindi di tornare verso “casa”.
Ma prima ci fermiamo a curiosare a Lonely Beach.
E ci si para davanti un contesto quantomeno bizzarro…
Ci sono bungalow in mezzo alla jungla, fra strada e spiaggia, case sugli alberi e palafitte sulla spiaggia per evitare gli allagamenti dell’alta marea.
È tutto molto fricchettone, a cominciare dalla gente che frequenta il posto.
C’è un fiume dove giocano i bambini, c’è un baretto palafittato che manda musica chill out, con tavolini bassi e cuscini per sedersi. E tante, tante amache. Fa un caldo infernale e nella jungla l’umidità è altissima, quindi al bar, ombreggiato e ventilato da una bava d’aria marina, tutti dormono o leggono. Il clima è rilassatissimo, il silenzio del relax è rotto solo dalla musica soft e dal rumore del mare.
Ci fermiamo a bere l’ormai classico succo di frutta with no ice e sembra di muoversi al rallentatore.
Quando decidiamo di andare per non essere sorpresi dal buio sulle montagne russe e per non essere divorati dai malvagi insetti del tramonto, le gambe sono pesanti e la testa completamente svuotata…
Ma torniamo comunque a White Sand Beach, il sole c’è ancora (ma non doveva piovere?) e la marea sta cominciando a scendere, concedendo un po’ di spiaggia ai bagnanti.
Il bagno riequilibra un po’ la temperatura corporea e mentre siamo stesi ad asciugare (cosa molto lenta, per l’alto tasso di umidità) un gruppo di muratori del vicino cantiere, completi blu e baschetto giallo in testa, scende in spiaggia per consumare una pausa di lavoro.
In quattro e quattr’otto si mettono in pantaloncini, tirano fuori due piccole porte che sembrano da hockey (fatte, mi sembra, con i tondini di ferro del cantiere), un pallone e via… inizia il partitone.
Chi non gioca sta a guardare a cavalcioni di una palma, tutti ridono delle acrobazie dei poco virtuosi bomber, e io consumo un rullino di foto per immortalare questa meravigliosa partita, sentendomi, con vane speranze di eguale riuscita, una Gabriele Salvatores in oriente.
La partita finisce, il mare si sta ritirando, ma il sole tramonta.
Torniamo al bungalow per doccia e riposino, vediamo un tramonto indimenticabile, con il sole che infuoca nuvole e silhouette delle varie isole, e infine torniamo a mangiare al ristorante di ieri, con i piedi nella sabbia.
Stasera siamo allegri, e dopo la grande abbuffata di pesce per quattro soldi, ci spostiamo in un pub dall’altra parte della strada dove suonano dal vivo.
Il gruppo è un trio thai con un repertorio rock-blues-classical song, tipo Eagles, Clapton, Santana, Beatles. Non suonano male ma nemmeno bene, noi però ci divertiamo come pazzi, complice una bottiglia di Mekong allungato con Coca Cola che ci scoliamo tenendo il ritmo con il piede. Dopo svariati attacchi di ridarella con le lacrime (lì per lì non sembra, ma il Mekong spezza le gambe…) osservando il simpaticissimo trio musicale, arriva la pioggia che era appesa in cielo da stamattina.
E che pioggia…
Ci spostiamo di tavolo e continuiamo la bevuta.
Il chitarrista ha la faccia simpatica e sempre un po’ sorridente. Si scola qualcosa e poi ammette al microfono: “Now I’m drunk!” E gli occhi di un orientale se sono a mezz’asta sono praticamente chiusi…
Il batterista sembra un personaggio di Sandokan, baffo nero, capello lungo raccolto in una coda, pelle scura, voce da rocker masticato…
Il bassista invece fa un po’ il figo, fumando una sigaretta dietro l’altra con l’aria un po’ annoiata, ma forse è solo timido.
Comunque sono simpatici e di compagnia. Davanti alla batteria hanno una cassettina con scritto “tip for a poor band”…
In preda ai fumi del Mekong decidiamo di andare senza renderci conto che il temporale è al suo apice. È un attimo, ma arriviamo al bungalow fradici.
E piombiamo in un sonno alcolico…
4 settembre 2006
Nonostante l’alcool di ieri sera ci svegliamo senza postumi, pronti per la colazione in terrazza.
Oggi siamo un po’ stanchi, in fondo ieri abbiamo fatto i nostri giri sotto il sole, siamo in vacanza o in missione?
Decidiamo di rimanere a White Sand Beach finché la marea è bassa, per leggere all’ombra delle palme.
Consueta, arriva la partitona di pallone dei muratori, ma la marea comincia a salire, a vista d’occhio.
Spostiamo un paio di volte gli asciugamani indietro, ma poi non c’è proprio più spiaggia, anche la porta della partitona è sommersa, beviamo un latte di cocco fresco e andiamo via.
Dopo doccia e riposino facciamo un giro in scooter nei paesini a sud di White Sand Beach, troviamo dei mercatini alimentari frequentati solo da thai e andiamo a vedere una spiaggia bellissima, Khlong Phrao Beach. Magari domani andiamo lì al mare…
Quando sta per calare il sole ci spostiamo in un punto in cui c’è un panorama stupendo. È un punto rialzato sulla collina e sotto di noi il mare lambito dalla jungla è piatto e cambia colore ogni secondo insieme al cielo.
Siamo in un momento romantico, il tramonto al Tropico, le isole, le palme…
Ma è proprio al tramonto che il pericolo malaria è in agguato, e infatti, mentre il sole scende le zanzare attaccano, facendoci fuggire in motorino, unti dal super-repellente…
Vorremmo mangiare in giro, ma c’è troppa jungla, i paesini non sono sulla spiaggia, ma sulle paludi, e non ce la sentiamo, quantità esagerata di zanzare.
Così torniamo al solito ristorante a White Sand Beach, piedi nella sabbia.
Per ora non piove, e ci mangiamo un granchione alla piastra che fino a un secondo prima era vivo (lo ha scelto Fabrizio con il dito sul vetro dell’acquario…) e l’ormai classico riso con seafood, più un tonno.
Con l’aglio fritto che si ripresenta un po’ torniamo nel pub di ieri a bere una coca.
C’è sempre lo stesso gruppo thai che suona lo stesso repertorio di ieri. Ora comincio a capire l’aria annoiata del bassista, chissà da quanto è qui, e chissà per quanto ancora suonerà Take it easy degli Eagles…
Ma io mi diverto. Intorno a noi ci sono un sacco di travestiti in compagnia di turisti thai e non. Chissà se i turisti cercano proprio quello o se stanotte avranno una sorpresa…
Domani è l’ultimo giorno di mare, anche oggi ha fatto caldo e alla fine nel pub ci è scappato di ordinare una tequila.
E gli occhi si riempiono di sonno…
5 settembre 2006
Eccoci, l’ultimo giorno di mare.
Dopo la solita colazione tropical-americana andiamo a Khlong Phrao Beach, la baia dei cocchi.
Il tempo è incerto, ma per ora non piove, e bisogna approfittare della bassa marea mattutina, almeno c’è un po’ di spiaggia…
Attraversiamo di corsa una brulicante palude su un ponticello di legno e ci spaparanziamo sulla sabbia.
Ci sono più venditori di braccialetti e parei che bagnanti. In tutto, comunque, non saremo più di dieci persone…
A pochi metri dalla riva ci sono i pescatori, tanti piccoli pescherecci con le reti quadrate sospese a poppa. Un po’ le calano in mare e un po’ le tirano su, raccogliendo il pescato.
Sono tanti, suppongo che il mare brulichi, e infatti anche a riva ci sono i soliti pesciolini curiosi…
Per tutta la spiaggia ci sono delle altalene appese alle palme. La marea sta salendo, il mare quasi le lambisce. E Fabrizio si diverte da morire a dondolare in modo disordinato e rotatorio sull’acqua, gli sembra quasi di volare…
Spostiamo un paio di volte l’asciugamano indietro, ma la marea è implacabile, bisogna andare.
Ci fermiamo a bere solo un succo sulla spiaggia, e appena ci sediamo la padrona del bar appende dei simpaticissimi uccelli in cocco, dondolanti per il vento, a un alberello dietro di noi.
Li fanno mamma e papà, ci dice.
Sono davvero belli, e decidiamo di comprarne due.
Arriva mamma, una vecchia thai con una vistosa ricrescita grigia sotto i capelli neri. Parla tantissimo, ride indica gli uccelli appesi, prima uno poi l’altro. C’è un solo problema: parla solo thai.
Poi arriva il papà, un vecchio con la faccia simpatica e sorridente segnata dal sole, e il petto tutto tatuato.
Lavorano insieme, ci danno i due uccelli che abbiamo scelto mentre oggi io faccio loro qualche scatto.
Foto in posa con me, grandi sorrisi, “kob kun ka” e ce ne andiamo.
Sarà bello pensare a loro quando il simpatico volatile in cocco fluttuerà in casa nostra a Genova…
Doccia, riposino e aperitivo in spiaggia.
Ci è venuta fame, prendiamo una birra Shinga e un sandwich, mentre la marea sta lentamente abbassandosi.
Il bar è frequentato da molti ragazzi thai che continuano a mangiare e a bere come spugne. Tanti sono in acqua, completamente vestiti.
Due ragazzi inglesi visibilmente sbronzi cominciano a scherzare con loro e in un battibaleno parte la battaglia. Tutti contro tutti a buttarsi in acqua.
Nell’isola non c’è obiettivamente niente da fare, ci sale una punta di noia, anche perché comincia a piovere, e così andiamo a casa.
C’è un tempo strano, sul prato davanti al bungalow piove, come su tutta l’isola.
Ma sul mare il cielo è meno coperto, e ci regala per l’ultima volta un tramonto mozzafiato.
Vorremmo andare a mangiare a Lonely Beach, ma non si può, con quest’umido sarà pieno di zanzare. Non abbiamo voglia di rischiare la malaria e essere fra i dieci casi all’anno… Proviamo un ristorante italiano, ma ha i prezzi… italiani, 700 BHT per un piatto!
Non ci resta che tornare nel solito ristorante, piedi nella sabbia.
Siamo persino un po’ stufi di mangiare pesce e ordiniamo a caso dei piatti di carne.
Il mio maiale con germogli di bambù è buonissimo, la zuppa al curry di Fabrizio un po’ meno.
Facciamo appena in tempo a dire “Basta riso, non ne voglio più vedere nemmeno un chicco!” e il cameriere chiede: “Plain rice?”. Gli scoppiamo a ridere in faccia, poverino, ma ci torna il buonumore.
L’isola si sta svuotando, il ristorante è quasi vuoto. La stagione è finita, sospesa fino a novembre. Tra poco comincerà a piovere sul serio…
Tanto per cambiare un po’ andiamo…al pub, dal trio thai rock-blues, e ordiniamo due bicchierini di un rhum di canna, il Samsong, e due coca cola, specificando, ovviamente, il solito “No ice!”
E ovviamente ci portano un bel bicchiere di rhum e coca con tanti bei cubetti di ghiaccio.
Ovviamente lo rimandiamo indietro.
Dopo vari tentativi il cameriere sembra aver capito. Arrivano le due coche e…un’intera bottiglia di Samsong. Ci rinunciamo. Che ci vuoi fare, non resta che berla…
Nel tavolo vicino al nostro ci sono due ragazzi napoletani che vengono al pub, come noi, tutte le sere.
Li osserviamo mentre ordinano una birra e un Chivas without ice. “With ice?” “No, without ice, no ice!!”
Moriamo dal ridere e attacchiamo discorso.
Siamo gli unici italiani sull’isola e probabilmente anche gli unici a non volere ghiaccio! Dei marziani, penseranno i thai…
I due ragazzi sono simpatici, si chiacchiera in allegria con il rock-blues thai in sottofondo.
Come noi hanno notato che gli avventori del locale sono sempre gli stessi: un signore ex-hippie col codino che si esalta tantissimo con i pezzi degli Stones, un pancione col parrucchino con una bellissima donna thai, due ragazze che ieri festeggiavano un compleanno, gruppi vari di turisti e di trans e travestiti thai.
Lo abbiamo notato tutti, nell’isola c’è pieno di travestiti.
Non sappiamo se sono dei tre o quattro go-go bar lungo la strada (ebbene sì, sono anche qui, proprio davanti al nostro resort) o se sono semplici frequentatori dell’isola.
In ogni caso i due napoletani ci dicono che sulla spiaggia c’è una discoteca che chiude alle due passate e che è piena di queste “Priscilla” thai. Ci assicurano che non è niente di squallido, anche loro detestano i go-go bar.
Ci incuriosiamo. Andiamo anche noi.
E come apriamo la porta si spalanca un sipario divertentissimo.
La discoteca è frequentata per la maggior parte da thai, a parte le facce occidentali oramai e noi familiari dei pochi turisti.
Ed è una vera festa!
Tutti si divertono da matti, ballano, lanciano gridolini, bevono…
I nostri amici sono praticamente assediati, ma nessuno ha atteggiamenti sgradevoli, insistenti o viscidi, e infatti tutti ridono e sorridono, i due napoletani rifiutano i vari inviti e proposte, qualche thai fa finta di offendersi andando via battendo i piedi e con le braccia conserte, e verso le due e mezza la discoteca chiude e tutti sciamano via.
Siamo contenti di avere visto questa bizzarra fetta di vita thai, forse c’è un’altra festa a Lonely Beach, ma noi domani ci svegliamo presto per partire.
Con il Samsong in corpo e il sorriso sulle labbra mi addormento pensando che è raro per una donna entrare in una discoteca senza che nessuno la consideri minimamente… Mai stata così tranquilla in un locale…
6 settembre 2006
Dopo la consueta abbondante colazione ci piazziamo con gli zaini alla reception del nostro resort, per aspettare il taxi per il porto.
Ci hanno assicurato che basta essere sulla strada un’ora prima e così facciamo.
La nave è alle 10, il tempo passa, ma di taxi nemmeno l’ombra.
Nove e venti, nove e mezza.
“Tranquilli, adesso arriva!”
Nove e quaranta…
Persino loro cominciano a innervosirsi.
Abbiamo già il biglietto della nave, più quello del pullman fino a Bangkok, e la notte in albergo già pagata.
Persa la nave perdiamo tutto.
Ecco, il taxi passa, ma è pieno, non si ferma nemmeno.
Li strozzeremmo…
Così paghiamo ben 400 BHT per arrivare in tempo alla nave.
La fantomatica macchina privata che affittiamo è quella del padrone dell’albergo, un tedesco a cui non passa nemmeno per l’anticamera del cervello di accompagnarci gratis, che so, per servizio, e che ci fa arrivare per il rotto della cuffia alla nave, un attimo prima che molli gli ormeggi.
È paradossale, in tutta la vacanza in Thailandia non abbiamo mai avuto problemi e l’unico che ci frega dei soldi è un tedesco…
Salutiamo l’isola abbracciandola con gli occhi mentre la nave si allontana, sbarchiamo a Laem Ngop, dove saliamo sul vip bus, direzione Khao San Road, per un viaggio interminabile, oltre sette ore con una sola sosta, e una toilette del pullman da far rizzare i capelli a un topo di Calcutta.
Ci avevano garantito che il bus era un diretto, e invece si ferma in tutte le località di mare fra Trat e Bangkok, per raccattare altri turisti.
Insomma, alla fine arriviamo a Khao San Road che è tardissimo, avremmo fatto meglio a prendere il bus pubblico, meno male che abbiamo prenotato l’albergo proprio nella strada parallela a Khao San, non dobbiamo nemmeno faticare…
Bangkok è davvero una città strana.
Le prime volte che ci sei vorresti scappare, troppo caos, troppa gente, troppe macchine, troppo smog.
E non capisci nemmeno da che parte sei girato, dal punto di vista urbanistico è un grano casino, impossibile orientarsi…
Ma poi ti entra nella pelle e ti piace. Nessuno ti rompe le scatole, nessuno litiga nel traffico, respiri un’aria di simpatica anarchia e ti senti a tuo agio.
Per noi è la quarta volta, quasi ci sembra di starci bene. Come a casa…
Scendiamo a fare un giro in Khao San, guardiamo un paio fra la miriade di negozi della strada e ci fermiamo a mangiare in un ristorante italiano proprio lì. Pasta al sugo di olive, tonno, acciughe e capperi. Mmmm…
Dopo cena continuiamo a girare per negozi e bancarelle.
Dobbiamo comprare un sacco di regali e di cose per noi, abbiamo tre giorni, ma qui ogni volta che chiedi “how much?”, anche solo per curiosità, comincia la contrattazione, e se anche non vuoi comprare nulla ma per sbaglio chiedi un prezzo ti inseguono con la calcolatrice, e quando te ne vai ti dicono, disperati: “Ehi, tell me your last price!”
Arriva la pioggia. Torrenziale.
Ci mettiamo al riparo sotto la tettoia di un negozio per aspettare che smetta, anche prima aveva fatto uno scroscio, magari riusciamo a correre in albergo fra una ramata e l’altra…
Ma l’acqua in Khao San Road sale, la strada è un lago.
Dai tombini sul marciapiede cominciano a uscire grandi scarafaggi, le fogne devono essere completamente allagate.
Ma noi siamo in infradito, e non è bello, anche perché vediamo tanta gente a cui gli scarafaggi salgono sui piedi, anche io prima me ne sono trovato uno sulla gamba.
Comincia a venirci un po’ di schifo.
Battiamo i piedi in continuazione, ogni tanto facciamo un saltino per schivare gli insetti, che vanno veloci…
Ad un certo punto Fabrizio tira un calcio in aria dicendo: “Ma che schifo!!!”
Topi.
Gli è salito un topo sul piede…
Ci guardiamo intorno. Anche i topi, mezzi affogati, stanno uscendo dai tombini per mettersi in salvo dall’acqua.
Cominciamo a essere un po’ a disagio.
Piove sempre più forte e l’acqua continua a salire, tra poco supererà il livello del marciapiede.
I thai ridono. Noi no.
Il nostro albergo è proprio nella strada accanto, ma nessuno dei due ha voglia di camminare in questo fiume fino alle ginocchia, con topi e scarafaggi di compagnia.
Prendiamo un tuk tuk al volo, con un balzo. 50 BHT per 100 m. di strada. Sarei disposta a pagare qualsiasi cifra, spero solo che non si spenga in mezzo a questi fiumi…
Finalmente in albergo, con il viso fisso in una espressione di disgusto.
Sotto la doccia vorremmo avere una spugnetta abrasiva, ma ci facciamo bastare il sapone.
Continua a piovere forte, ci hanno detto che è il primo giorno che fa così. Che fortuna, eh?
Fabrizio si addormenta dicendo: “Mi è salito un topo sul piede…”
7 settembre 2006
Dopo una notte con incubi pieni di insetti e animali striscianti, ci svegliamo in una mattinata afosa e piena di umidità.
Il cielo è coperto, ma per ora non piove.
La colazione dell’albergo è a buffet, “eat as you want”.
Come al solito non ci tiriamo indietro…
La prima tappa di oggi è il Palazzo Reale.
Davanti all’hotel un autista di tuk tuk ci dice che oggi è il giorno del Buddha, e il Palazzo Reale è chiuso.
L’avevamo già sentita questa storia, altre volte (e non era giovedì) autisti di taxi e tuk tuk ci avevano detto che il posto dove volevamo andare era chiuso perché era il Buddha’s Day.
Persino sulla guida c’è scritto che accade che tu, ignaro turista, ci creda, e che allora l’autista ti proponga la visita di un posto più lontano, facendoti ovviamente pagare molto di più la corsa…
Ignorando l’avvertimento, ci facciamo portare comunque al palazzo, che, naturalmente, è aperto.
Prima di entrare mi fanno indossare una camicetta orribile e piena di buchi sopra la canottiera. Secondo un loro concetto di decoro è meglio quella delle spalle nude…
Il palazzo è bellissimo, pieno di statue in pietra, draghi, guardie scultoree gigantesche, colori, oro.
Per prima cosa andiamo a visitare il Wat Phra Kaew, un complesso templare di edifici coloratissimi e pieni di dettagli, dal piccolo al gigantesco.
Appena entriamo siamo rapiti dalla maestosità di due grandi statue guardiane, e poi lo sguardo vaga, fra ori, mosaici e guglie.
Fa molto caldo, la pioggia è appesa lì, nelle nuvole gonfie, e la mia camicetta grigia mi fa perdere litri di sudore.
Entriamo nell’edificio principale, assediato da fedeli e da turisti.
Ed eccolo lì, il famoso Buddha di smeraldo, che poi di smeraldo non è, un bel Buddha di 60 cm. lassù, in alto, con la gente che prega inginocchiata sul pavimento.
Il re in persona provvede a cambiargli la veste: la invernale, la estiva, e quella per la stagione delle piogge.
La Lonely Planet ci racconta le vicissitudini che la statua ha subito, da Chiang Rai a Chiang Mai, rubata dai Laotiani, recuperata da Rama I, riportata a Thomburi e infine a Bangkok, nuova capitale del Regno del Siam.
Non si possono fare foto, bisogna avere un comportamento decoroso e rispettoso.
Non riusciamo purtroppo a cogliere fino in fondo la devozione dei fedeli, non siamo in grado di capire se è per la statua in sé o per ciò che rappresenta, purtroppo non ne sappiamo abbastanza. Cerchiamo dei corrispettivi nella nostra cultura ma non ne troviamo, forse per nostra ignoranza, o forse perché davvero la nostra civiltà e la loro hanno in comune poco e niente.
Usciamo dal tempio e giriamo ancora a zonzo fra giardini curatissimi e guerrieri in pietra, poi ci dirigiamo verso il Palazzo Reale, che è bellissimo, un misto di architettura orientale e europea, di ispirazione rinascimentale.
In alcune ali si può entrare, in altre no.
Vediamo la stanza del trono, maestoso, prezioso, con le scolaresche thai ordinatamente sedute ad ascoltare la loro paziente guida.
Vediamo le sale di ricevimento degli ospiti, e scopriamo che nella storia ci sono stati molti contatti fra l’Europa e la Thailandia. Non lo sapevamo.
È tutto così maestoso, pregiato e ricco di particolari che quasi ci sembra di essere su un set di Bollywood…
Ma il caldo è arrivato all’apice, con il suo carico di umidità.
Ci rifugiamo al bar e il cielo rompe le acque. Torrenziale. Di nuovo.
Cerchiamo di uscire dal Palazzo fra uno scroscio e l’altro, schivando pozzanghere e venditori di ombrelli e impermeabili.
Alla fine compriamo due ombrelli, e, evitando i tombini – siamo ancora un po’ shockati dai topi di ieri sera – ci dirigiamo verso il Wat Pho, il tempio più antico e più grande di Bangkok.
È stupendo, anch’esso pieno di statue e giardini, di colori e grazia.
Ospita la sede nazionale per l’insegnamento della medicina tradizionale, e si possono fare anche massaggi e corsi di massaggio. Che pace..
Ma la cosa che più colpisce è la statua del Buddha disteso.
Mai vista una cosa simile.
È enorme, 45 metri per 15 di altezza, rivestita di lamine d’oro, con inserti di madreperla negli occhi e nei piedi.
Rappresenta il trapasso del Buddha nel Nirvana, e ha un’espressione dolce, con un sorriso delicato e lo sguardo estatico.
Non smetterei mai di guardare quel volto, con le labbra morbide, i riccioli gentili, la testa sorretta dalla mano, il gomito appoggiato in terra.
Cammino verso i suoi piedi, lentamente, senza fiato, e scopro che sotto le sue piante sono descritte, in madreperla, ben 108 caratteristiche del Buddha.
Tutto il tempio è riempito da suono metallico non proprio ritmico ma costante.
Pensavo fossero delle campane mosse dall’aria, e invece dietro al Buddha scopro tante scodelle di ferro messe in fila, e i fedeli mettono una monetina in ogni ciotola. Il suono del metallo sul metallo accompagna la meditazione.
A malincuore esco dall’edificio.
Vorrei guardare ancora una volta quel volto così pacifico e soddisfatto, quel sorriso.
Quale migliore rappresentazione del Paradiso se non il volto di chi lo raggiunge?
Mi giro e lo vedo attraverso la finestra. Sembra quasi che riempia ogni inquadratura visiva, da quanto è grande. Imponente, ma dolcemente aggraziato. Direi quasi magico.
Usciamo dal tempio.
È spuntato il sole, e dopo la pioggia il caldo è ancora più torrido.
Ci dirigiamo verso il fiume. Sarebbe bello fare un giro dei canali, approfittando della schiarita, e un vecchietto, per strada, ci indica gentilmente l’approdo dove si può noleggiare una long-tail boat.
Contrattiamo un prezzo con l’agente al molo e saliamo sulla piroga, armati di macchine fotografiche.
Entriamo nel canale Bangkok Yai, in un’acqua marrone e piena di alghe grosse come lattughe.
Ci abitano, qui.
Gli edifici sono palafitte di legno, e passando con la nostra long-tail rubiamo scorci di vita quotidiana.
C’è qualche abitazione ben tenuta, ma in generale le case sembrano molto povere.
Qualcuno si lava con l’acqua delle otri sulla veranda, alcuni fanno il bagno, soprattutto ragazzi e bambini, qualcun altro pesca in queste orribili acque che in effetti brulicano di pesci enormi, forse pesci gatto.
Ci sono retro di negozi, qualche tempio, tante case, tutti con l’approdo per la barca e la scaletta per salire.
Il nostro “autista” ci indica qualcosa, a lato.
Ma cosa? Non vediamo niente.
Eccolo…
Perfettamente mimetizzato, un grande varano si è steso su un muretto.
Mio Dio, è enorme, speriamo che la barca non si rovesci…
Una volta tarato l’occhio ne vediamo altri, anche più grandi, che nuotano, che si arrampicano ai lati del canale.
Ma come si fa a fare il bagno in queste acque?
La barca naviga lentamente. Il barcaiolo, una sorta di gondoliere thailandese, è gentilissimo, rallenta per farci fotografare case e volti, e ci indica scorci, centri massaggio, templi e barche che vendono acqua e bibite gassate.
Il giro dura un’oretta buona. Ci riempiamo gli occhi di povertà, o almeno l’impressione è quella, ma forse arriviamo anche nel cuore di Bangkok, al di fuori di turisti, hotel e bancarelle.
E per quanto un po’ schifati dagli innumerevoli schizzi d’acqua che ci sono finiti anche in bocca, ci sentiamo pieni di immagini e con un altro pezzetto di Thailandia nel cuore.
Torniamo in albergo, con la necessità di una doccia.
Ma quasi subito usciamo per andare a curiosare nella zona di Thanon Silom, cuore di centri commerciali e bancarelle, vicina a Patpong.
Giriamo a zonzo fra negozi e mercatini, poi cerchiamo un posto dove mangiare.
Ci piacerebbe l’indiano, ma la nostra guida è un po’ datata, qui sembra che gli indiani siano stati spodestati dai giapponesi… Dappertutto ci propongono sushi, ma dopo aver navigato i canali e visto il brulicare di fauna, non abbiamo proprio voglia di pesce crudo!
Optiamo quindi per un ristorante italo-thailandese, dove mangiamo thai ma con il pane di accompagnamento. Pane all’aglio, ma è meglio di niente…
Usciti dal ristorante decidiamo di fare un giro nelle famigerate strade di Patpong.
Appena vi mettiamo piede chiunque ci propone gli innumerevoli show dei vari locali, che poi in realtà sono in prevalenza due spettacoli in cui pare che vengano esercitati i famosi addominali delle donne thai: il pingpong show e il banana show, i cui i suddetti oggetti vengono inseriti nelle parti intime per poi venire espulsi facendo canestro in un vaso oppure lanciati tra il pubblico.
Saltiamo volentieri gli show genitali, ma ci guardiamo intorno e vediamo un sacco di locali con ragazze che ballano lap dance, il corpo semivestito, l’espressione un po’ annoiata.
Non è che Patpong sia granché, giriamo ancora un po’, ma la cosa più divertente è una sfilata in stile gay pride organizzata in un’intera strada in mezzo ai bar, con tanto di presentatore.
Andiamo verso “casa”, i piedi chiedono un po’ di riposo, è da stamattina che camminiamo.
Ci fermiamo a bere un’ultima cosa in Rambutri Road, la strada del nostro hotel.
Scegliamo “The last pub”, il nome ci sembra appropriato.
E poi è proprio di fronte al nostro albergo…
8 settembre 2006
Oggi abbiamo intenzioni bellicose: shopping!!
Abbiamo studiato gli itinerari e abbiamo predisposto un piano di ottimizzazione dei tempi…
La prima tappa è Siam Square, dove già eravamo capitati per caso a inizio vacanza.
Jeanserie, negozi di scarpe, di abbigliamento casual e elegante, profumerie piene di donne e travestiti che testano i cosmetici truccandosi come bambole, parrucchieri, tatuatori, manicure, venditori di pelle con giacconi-borse-cinture, negozi di suppellettili di ogni tipo, dallo swarovski al tek.
Tutti prodotti globalizzati e, in linea di massima, contraffatti. Siamo nel regno del tarocco, ma la merce è bella, e per quattro soldi ti fanno modifiche e orli in 20 minuti…
Dopo aver girato tutto il centro commerciale, tre o quattro piani in cui, però, è rara la contrattazione, scendiamo giù, nella vera e propria Siam Square, e percorriamo il labirinto di corridoi e gallerie sotto i grandi palazzi moderni.
Fa un caldo terribile, ma è divertente. Come al solito siamo in mezzo ai thai, i turisti sono davvero pochi, e sembra che ragazzi e ragazze siano appena usciti da scuola, con le loro uniformi e le borse a tracolla.
Le ragazze più giovani hanno una divisa rigorosa, con gonna sotto il ginocchio e scarpe chiuse.
Le più grandi, invece, si possono concedere gonne più corte, con piccoli spacchi un po’ sexy e scarpe alla moda.
Ma la cosa divertente è che essendo obbligate alla divisa cerchino in qualche modo di differenziarsi tra loro nei particolari, attuando una corsa sfrenata alla ricerca dell’accessorio.
E quindi cerchietti, fasce per i capelli, mollette, orecchini, collane, cappelli e trucchi, tanti trucchi… Sembra di essere in un fumetto manga!
Con il nostro carico di pacchi e pacchetti torniamo verso Khao San.
Non riusciamo a fare più di due metri senza fermarci a comprare qualcosa o a chiedere un prezzo. Ormai siamo entrati nel tunnel, impossibile uscirne.
L’abbigliamento che si compra qui è il mio preferito da anni, e con questi prezzi…
E allora gonne, pantaloni, sciarpe, borse, occhiali da sole, canottiere…
Fabrizio entra invece nel vortice delle T-shirts e dei cd taroccati…
Quando torniamo in albergo siamo carichi come cammelli da carovana.
Mettiamo tutti gli acquisti sul letto: ci è decisamente scappata la mano!!!
Solo oggi Fabrizio ha comprato cinque paia di pantaloni e sei o sette magliette… E io ho il guardaroba nuovo, completo anche di accessori…
Ci riposiamo un attimo, ma il tempo vola, non c’è tempo da perdere, dobbiamo comprare ancora tutti i regali…
Usciamo e giriamo nei vicoli intorno a Khao San, ma siamo anche un po’ stanchi.
Domani sarà una giornata campale: mercatino del weekend, tutto il giorno in giro e poi all’aeroporto, perché, ahimè, si torna a casa.
Ci informiamo nelle guest houses in zona se è possibile domani fare una doccia. Ci salverebbe la vita, prima di partire.
E mentre giriamo a zonzo e chiediamo in giro, ci imbattiamo in un centro massaggi che ci ispira più di altri.
Ci guardiamo. E perché no?
Dopo aver camminato tutto il giorno ho proprio voglia di provare il foot massage.
Il centro massage (la pronuncia francese è forse eredità degli anni del colonialismo) è molto bello. Hanno anche la doccia, magari domani veniamo qui prima di partire…
Il massaggio ai piedi è favoloso, anche se più doloroso del massaggio thai.
Devo avere dei nodi di energia tremendi, perché ogni tanto mi devo forzare a non saltare sul materassino.
La massaggiatrice mi chiama madam, usa olii emollienti e molto aromatici, e inizialmente si dedica al massaggio e allo scioglimento di piede e polpaccio, fino al ginocchio, crocchiando, tirando e premendo. Poi prende uno strumento di legno, il finger, dito, e lo conficca nel piede in punti precisi, seguendo disegni antichi e conoscenze della riflessologia.
È un piacere doloroso, o un dolore piacevole, non saprei dire. So solo che lei segue il mio respiro lasciandomi il tempo di assorbire le punte del dolore o del solletico per trasformarle in puro piacere, in vero e proprio relax.
Verso la fine del massaggio si dedica anche alle cosce, agli inguini e alla parte della colonna che influisce sugli arti inferiori. Mi continua a cospargere di olio e conclude con una passata di morbido borotalco.
Sono rinata. Piedi leggeri, testa svuotata.
Dopo il massaggio ci offrono un tè verde e una fetta di ananas, diuretici dopo un massaggio drenante. Geniale.
Usciamo camminando su una bolla di sapone, cerchiamo un posto dove mangiare e troviamo un ristorante indiano bellissimo, con i cuscini e i tavolini bassi.
Il cameriere non parla una parola di inglese nonostante sia indiano, ma alla fine i piatti ordinati a caso si rivelano buoni e molto delicati.
Con il gusto del curry indiano in bocca e nel naso beviamo un’ultima cosa in un bar di Rambutri, ma rimaniamo all’esterno, anche perché dentro c’è la calca, tutti thai, e anche qui fuori siamo solo una manciata di occidentali, gli altri avventori sono thai, e cantano le canzoni del duo, voce femminile e chitarra, che si esibisce dentro.
Ma chissà dove sono gli altri turisti.
Spero non tutti a Patpong…
9 settembre 2006
Ed eccolo, l’ultimo giorno…
Giorno dedicato all’ultimo shopping, programmato in modo da stancarci ben bene per dormire tutta la notte in volo.
Lasciati gli zaini in albergo ci dirigiamo, abbastanza mattinieri, al mercato di Chatuchak, il weekend market di Bangkok.
Sulla guida c’è scritto che tra il ventesimo e il ventiseiesimo gate si trovano abbigliamento e artigianato, ma non immaginavamo che il mercato fosse così vasto e animato. E caldo…
È un’intera città, con stradine fra file di negozi, e una drammatica copertura in lamiera e vetro. Una sauna sempre più soffocante con l’avanzare del giorno e della stanchezza.
Ci sono negozi di ogni tipo, raggruppati per “quartieri”, ma girarlo tutto è impossibile.
Vaghiamo per non so quante ore grondando sudore e caricandoci sempre di più di pacchi e sacchetti.
I prezzi sono buoni, le contrattazioni difficili da evitare.
Dopo svariati litri di sudore – e meno male che ovunque si trovano bottigliette d’acqua - e numerosi chilometri percorsi, capiamo che è il momento di smettere. Dobbiamo uscire dal tunnel, anche perché stasera rischiamo di arrivare all’aereo sui gomiti, e con un colpo di calore.
Torniamo quindi a Khao San, beviamo un succo di rambutan, mango e ananas rigorosamente all’ombra e compriamo un trolley e una borsa per portare i nostri acquisti a casa. Gli zaini sono già pieni, speriamo solo di non sforare con il peso…
Poi, posate le due nuove borse in albergo, prendiamo una camera per un paio d’ore in una guest house a fianco all’hotel. Alla modica cifra di 2 euro possiamo fare una doccia e riposarci un po’.
Ma poco, perché il tempo passa, e abbiamo voglia di far scendere la tensione per il volo con un bel massaggio.
La strada fra la guest house e il centro massaggi di ieri è poca, ma le tentazioni sono tante, non faccio in tempo a girarmi che Fabrizio sta comprando altre magliette, e mentre lui chiede un prezzo io ho già concluso una contrattazione per delle canottiere…
Ci imponiamo di andare al centro massaggio, e per un’ora mettiamo in standby cervello e fisico, fra torsioni e manipolazioni.
Ma comincia a essere tardi, dobbiamo andare all’aeroporto.
Con il groppo in gola salutiamo Khao San Road, prendiamo bagagli e taxi e siamo in aeroporto.
Non sapevamo di dover pagare una tassa di uscita dal paese, e noi che speravamo di tenere gli ultimi soldi per il duty free…
I controlli all’aeroporto sono accurati, in questi giorni è stato sventato un attentato al premier Thaksin, una sorta di Berlusconi thai, magnate delle tv.
Ma finalmente siamo seduti sul nostro gigante dell’aria.
Bangkok ci regala un ultimo brivido: mai visto, in 25 giorni, un temporale così. Tuoni, fulmini e cascate d’acqua sul nostro decollo. Chissà quanti topi in Khao San…
Goodbye Thailandia, spero sia un arrivederci.
Ah, e kob kun ka, grazie, di tutto.
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